di Paolo Mottana, www.immaginale.it
Le immagini poetiche, secondo le fini analisi di Gaston Bachelard, sono sempre rinnovatrici del mondo, nel duplice senso che «ampliano la nostra vita mettendoci in contatto con l’universo», come sostiene il filosofo francese in apertura della Poetica della rêverie, e che «ci riportano all’origine dell’essere parlante», come aggiunge nella Poetica dello spazio. Esse ci riuniscono a una comune radice, profonda, in cui le differenze vengono meno e si penetra nel luogo dell’«anima», «la grande tranquillità dell’essere femminile più intimo», la dolcezza e la lentezza che fanno del vivere poetico un «ben vivere» e della sua metafisica una «filosofia del riposo».
Poesia benefica – Quella del rêveur è la particolare condizione esistenziale del lettore di poesia, nel quale si riaffaccia una «infanzia permanente» amante delle solitudini e del retentissement (l’espressione è stata coniata dallo psichiatra Eugène Minkowski), cioè della speciale risonanza, che non si limita a trasmetterci dall’esterno l’esperienza mediata dai versi, ma che inaugura una «unità d’essere», un «cambiamento d’essere» che dipende dal fatto che noi entriamo nel mondo, nel luogo, appunto, qualitativo, trasmutativo, della vita poetica. Una risonanza capace di dislocarci in un “non dove” (dal momento che non di un’esperienza reale si tratta, ma di un’esperienza immaginativa, che mescola benignamente virtuale e reale) avvertito come radicamento, dimora, origine.
La poesia è «benefica», per Bachelard, è «il massimo di ogni gioia estetica», la «poeticosfera» è lo spazio di una ri-creazione e di una terapia permanente: «Quale benessere ci offrono i nuovi libri! Io vorrei che ogni giorno mi cadessero dal cielo a grandi fasci i libri che raccontano la giovinezza delle immagini. Questo voto è naturale. Questo prodigio è facile. Lassù, in cielo, non è forse il paradiso un’immensa biblioteca?». Autentico elisir, la poesia, tramite la «giovinezza delle immagini», il loro potere catartico, la loro qualità specifica di espansione dell’essere, fino ai limiti delle rêveries cosmiche, è la via di guarigione di un’umanità afflitta dalla nettezza della ragione e dalla «cancerizzazione geometrica del tessuto linguistico della filosofia contemporanea».
E come non credergli, mentre lo si segue nel suo esame minuzioso, proprio di quella «filosofia del dettaglio» così attenta e devota e distante da ogni eccesso di sintesi e di razionalizzazione, che egli dispiega mentre esplora la poetica dell’intimità, sia che lo faccia a proposito della materia, come discesa nell’infinitamente piccolo, nei processi di miniaturizzazione e dinamizzazione che la poesia opera nella sua concentrazione sulle cose, rivelandone quell’oscurità che «autentica» la luminosità, la «segreta oscurità del latte», la visita nella «mela» di Michaux, o la «scultura interna» del mondo cristallino del geode dischiuso; o viceversa a proposito dei luoghi, in una «topofilia» che si rende «filo-filia», desiderio di desiderio, piacere del piacere, nello sprofondamento psichico che le immagini poetiche della casa, dalla mansarda alla cantina, e poi sempre più nel piccolo, nei cassetti e nelle cassapanche, negli armadi e poi nei nidi e nei gusci, negli angoli e nel «rotondo» inducono sfociando nel sentimento panico di un’unità ritrovata all’insegna dell’«immensità dell’intimo»?
Come non essere rapiti, anzi letteralmente ipnotizzati dalle irresistibili perlustrazioni, fitte di una prodigiosa proliferazione semantica, ma di più, linguistica in senso stretto, dell’opera di adesione fenomenologica compiuta da Bachelard al regno delle immagini poetiche? Come non rimanere prigionieri nel sortilegio di una reiniziazione al mondo, vissuta per tramite della poesia, in cui esso ci si rivela molto più ampio e profondo, desiderabile e pregno, finalmente “abitabile”?
Probabilmente può risultare facile scongiurare la presa dell’illusione costruita dal filosofo rimproverandogli l’idealizzazione di un mondo cui appaiono sottratti il peso del male e la condanna della morte, in cui si assiste a un godimento sospeso alla selezione fin troppo accurata di immagini da cui sia stata bonificata ogni traccia e ogni residuo della tragicità del vivere. Forse. Anche se va detto, Bachelard non si sottrae all’esame delle rêverie materiche più dure e violente, né ai complessi abissali di una poetica del fuoco o alla malinconia delle acque, avviluppanti e mortifere, che il lettore di Poe o di Jules Laforgue non può sfuggire e in cui «l’acqua è la materia della disperazione».
E tuttavia, secondo Bachelard, così come secondo Gilbert Durand, vi è un potere legante della poesia, un potere eufemizzante, che consente all’esperienza grezza di trapassare in una realtà intermedia in cui il dato scioglie la sua estraneità e smussa le sue asperità e si ricongiunge a un universo di appartenenza che lo contiene, ne amministra il significato e lo porta a sfociare in una comprensione più ampia, lo dissolve in una percezione unitaria. La morte scivola nell’annegamento cosmico e il nero è solo la porta di una percezione più profonda, non la collisione violenta con il silenzio terrorizzante del nulla.
Risvegliare la violenza del sacro – D’altra parte l’immagine poetica sembra ergersi ogni volta come un bastione di difesa dall’uragano del niente, forse persino là dove, come in Beckett o in Artaud, la mareggiata torturata dell’insensato o del silenzio di Dio si fa più feroce e inesorabile. Sembrerebbe che il lavoro dell’immaginario, di quello poetico e artistico in particolare, sia l’esercizio estremo di un esorcismo della morte e del deserto del senso. Anche dove è più frantumato, aspro, polemico, il verso poetico sceglie la via analogica, sceglie la via obliqua di un approccio che non ha reciso con l’interrogazione metamorfica dei significati del reale, e che appella un fondo simbolico, magari solo per constatare che il significante pende sull’abisso e che nessuna voce risponde. Ma pur sempre vi si sporge e chiama. Non definisce, non taglia, non sentenzia, piuttosto reclama, anche nel suo canto più “petroso”, la risposta di un universo che si sottrae e si abbuia. È questo che fa dell’immagine poetica l’universo sintetico, mistico, conciliatore dell’operatività simbolica, animato dalla ricerca del legame, contrapposto al regime schizoide di una razionalità che si impone al reale per spezzare, dominare, negare ogni provenienza, ogni filiazione, ogni radicamento.
Quando Antonin Artaud inveisce contro l’ordine psichiatrico, rappresentato nell’occasione significativamente dal «dottor L.» (in cui si cela lo psichiatra Jacques Lacan), «bougre d’ignoble saligaud», e la repressione sociale che aveva strangolati van Gogh e lui stesso, è in fondo ancora in nome di un’appartenenza più vasta, imprendibile, che egli insorge, quell’appartenenza a un altro ordine, a uno spazio in cui abita solo il “genio”, il “martire” che vive all’inseguimento dell’infinito, del legame profondissimo con un sostrato mitico sempre tradito, sempre violato proprio dai protocolli disciplinari e da una ragione discorsiva che frammenta e polverizza.
La «Grande Opera di una sempiterna e intempestiva trasmutazione», come Artaud definisce la pittura di Van Gogh all’inizio del suo straordinario scritto dedicato al maestro olandese, è questo infaticabile sforzo di antientropìa, di ricucitura dei lembi di un cosmo lacerato e desertificato. Artaud ritrova in Van Gogh la sua stessa ossessione, quella di produrre l’ «Evento», come riesce al pittore nei Campi di grano con i corvi: riunire il cielo e la terra, quel cielo «schiacciato» (surbaissé) e quella terra «che si contorce al di sotto», riavvicinare i poli recisi della Genesi e dell’Apocalisse «attraverso la porta aperta dal pittore di un enigmatico e sinistro al di là» in cui tempo ed infinito si ricongiungono, si confondono, nel riemergere folgorante di una dimensione del “sacro” che, nel tempo ultimo dell’opera di Artaud, come sappiamo, non è già più la testimonianza di una nostalgia metafisica, quanto la percezione piena che, nell’opera d’arte, nell’opera poetica, come nel Teatro della Crudeltà, si tratta di rendere visibili le forze già all’opera nel cosmo, in un mondo alla ricerca della sua unità.
Questa è la necessità dell’artista, del genio, come chiarisce bene Camille Dumoulié nella sua vibrante riflessione sulla vita e l’opera di Artaud: «risvegliare la violenza del sacro», restituire all’origine, origine ritrovata oltre ogni «piega», oltre ogni finzione: rimettere a nudo la realtà nel suo «stato d’infanzia», verso il pre-simbolico: così le tele di Van Gogh risultano essere una musica dal «timbro sovraumano», sono come un poema ancestrale, un’«archi-scrittura». E il rinvenimento di questa archi-scrittura, questa regressione destinale, rende il pittore, l’artista, il poeta, un autentico eversore, oltre che la «vittima sacrificale», il «capro espiatorio» attraverso cui è data la possibilità di bucare il muro della repressione e imboccare la ricerca dell’infinito. «Fedeltà all’infinito» è il motto così ben individuato da Françoise Bonardel, proprio per rendere conto dell’opera sofferente, calcinata, torturata eppure incandescente e moltiplicatrice, di Artaud. E «fedeli dell’infinito», non rassegnati al regime ordinatore e castratore del linguaggio ordinato dal “nome del Padre”, appaiono i poeti più “arrischiati”, ultimi alchimisti del nostro tempo, cercatori infaticabili della “pietra”, dell’“elisir”.
Travaglio gnostico – Del resto, non è forse di questo che parla Heidegger, seppur su altri toni, certo con altri riferimenti, ma in fondo all’interno della medesima costellazione simbolica, quando parla del poetare come di un abitare e di un costruire, o meglio forse ricostruire legami perduti? Il poetare è la vera dimensione dell’abitare, dice Heidegger, nel suo interrogare Hölderlin, anche se il tempo inflazionato in cui il filosofo vive (ma probabilmente ogni tempo) tradisce questa vocazione autentica. Il poetare è accogliere la misura, è un misurare come restituire gli aspetti dell’estraneo (invisibile) che appaiono come perturbante nel famigliare (visibile). Il poetare è stare in questa «dimensione», in questo «frammezzo» (Zwischen). Leggiamo le parole di Heidegger: «Il poeta, se è poeta, non descrive il puro e semplice apparire del cielo e della terra. Il poeta, negli aspetti del cielo, chiama quello che proprio nello svelarsi fa apparire ciò che nasconde, e in quanto è ciò che si nasconde. Nelle apparenze che sono familiari, il poeta chiama l’estraneo come ciò in cui l’invisibile si trasmette per rimanere ciò che è: sconosciuto». Come risuona prossimo questo passo alle parole di Rilke quando invoca, proprio per il poeta, il compito di rendere le cose «sempre più invisibili», di farsi custode dell’invisibile, ma pur sempre nel dire, «qui», le cose, come nella Nona Elegia Duinese:
[...] casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra,
al più: colonna, torre… Ma per dire, comprendilo bene,
oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse, nell’intimo,
mai intendevano d’essere.
È il poeta che può dire le cose, che le accasa, e il loro essere è un essere che esse non potevano intendere. Infatti all’essere delle cose, occorre un ascolto (Hören), che è l’attento ascolto poetico, l’unico che conduce all’abitare. Abitare come dimorare in un frammezzo, sotto il cielo e «sulla terra», in questo fra, che è anche un non luogo dell’immaginazione, un non luogo poetico. Heidegger dice che il poetare è «immaginare» «in un senso eminente»: non si tratta di «pure e semplici fantasie e illusioni, ma immaginazioni e come incorporazioni visibili dell’estraneo nel rispetto di ciò che è familiare. Il dire poetante delle immagini raccoglie in uno la chiarità e il risuonare dei fenomeni celesti insieme con l’oscurità e il silenzio dell’estraneo». Eccoci messi al cospetto di un’autentica ontologia dell’essere poetante: esso ha un luogo, il frammezzo, metaxù, luogo ermetico di passaggio, «dimensione» in cui si incrociano mortale e immortale, terra e cielo, secondo la geometria mistica del Geviert, della «Quadratura» (della Tetraktis probabilmente…), attraverso l’opera del medium dell’immaginazione creatrice, quella di cui un discepolo di Heidegger, Henry Corbin, potrà decantare la virtù rivelatrice e trasmutatrice: la capacità cioè di rendere attingibile il radicamento archetipico di ogni ente intramondano. Facoltà visionaria, in dote ai mistici e ai poeti, di “vedere”, nel luogo dell’immaginazione “vera”, delinearsi il “volto”, sagomato dalla sua provenienza d’Altrove, d’ogni cosa percepibile, e dunque di stagliare il conoscibile sullo sfondo luminoso della sua provenienza inconoscibile (lo “Sconosciuto” di Heidegger), che filtra appunto nel corpo spirituale dell’Immagine.
È questa coniugazione, questo connubio il compito di cui il poeta si fa carico e che lo rende di fatto il custode dell’abitare autentico sulla terra, della misura ”immisurabile”, secondo lo “sguardo netto” del calcolo e della scienza, da cui invece appare imprigionato il mondo dei «suppots», dei succubi e dei fantasmi – preti, psicologi, filosofi secondo Artaud, non meno che secondo Nietzsche – della «psicurgìa» che complotta contro l’infinito.
La poesia è dunque indubbiamente una Quête, un’inesausta passione del risanamento, travaglio gnostico di fuoriuscire dall’esilio in una rinnovata alleanza, nella restaurazione di un’unità originaria perduta, ma è anche un itinerario di perfezionamento, di trasmutazione, di eversione dal regime mortifero della computazione e della sterilizzazione del mondo, nell’intento di ripristinare la sua abitabilità.
La sua ricerca di infinito è da questo punto di vista «lotta contro la putrefazione, esorcisma della morte e della decomposizione temporale» in quanto sospinta da una «funzione eufemistica», come ha ben visto Gilbert Durand, determinata a rovesciare il pronostico fatale del Tempo. L’antropologo francese sostiene infatti che il potere della «funzione fantastica» è proprio quella di costituire «una riserva infinita d’eternità contro il tempo». Il suo «sensorium» sarà allora lo spazio, in quanto l’immaginazione poetica spazializza, situa, istituisce una «geosofia» (quella profonda dell’abitare) che rivoluziona l’essere nel mondo. Il suo luogo è un «superspazio euclideo», «una sorta di spazio iconografico puro, che nessuna deformazione fisica, dunque temporale, raggiunge e dove gli oggetti si dislocano liberamente senza subire la costrizione prospettica». La spazialità, a differenza della temporalità, è la dimensione qualitativa per eccellenza in cui può dispiegarsi l’immaginazione, fruendo del principio di non-contraddizione e di un’esperienza di partecipazione e di ambivalenza, in virtù dei suoi caratteri contemplativi, profondi, ubiquitari.
La poiesis della poesia è spazializzante, in questo costruttiva, il suo potere è l’eversione degli assi cartesiani che imprigionano il mondo e l’apertura di un oltre in cui le differenze si mantengono conciliandosi. Luogo dell’utopia e della «Speranza», come dice Durand, «mundus immaginalis».
Praxis poetica – Il mondo poetico è animato da una specifica praxis, gode di una specifica ontologia ed è dotato di un peculiare potere. La prassi è la «prassi simbolica», l’ontologia è quella di una materialità spirituale che oltrepassa la limitazione del principio di non contraddizione riscattando la possibilità del “terzo incluso”, di cui il veicolo immaginativo si fa transito, luogo e trama. Ma soprattutto la poesia ha un potere, e il suo potere è un potere “guaritore”, all’insegna di una poietica di cui si tratta di riapprendere la lezione e il potenziale.
Una poietica che pone al centro il ruolo del “simbolo”, come operatore di ricongiunzione, come vettore d’infinito. È il simbolo, inteso nel suo senso più profondo – radicato nella tradizione teologica come in quella mitica –, come evento in cui si dà l’«epifanìa di un mistero», ancora secondo le parole di Gilbert Durand, in cui si adombra e si allude a ciò che non può trovare miglior forma, trait d’union tra visibile e invisibile, a propiziare il “fare” conveniente all’utopia – non luogo e buon luogo (ou-topos ed eu-topos)- che “indica”. Esso è ancora, secondo Corbin, «la “cifra” di un mistero, il solo mezzo di dire ciò che non può essere appreso diversamente; esso non è mai “spiegato” una volta per tutte, ma sempre nuovamente da decifrare, allo stesso modo in cui una partitura musicale non è mai interpretata una volta per tutte, ma richiede un’esecuzione sempre nuova»
La “prassi simbolica”, così come la tratteggia sapientemente René Schurman in un articolo comparso nel 1976 nei Cahiers Internationaux de Symbolisme, seguendo indubbiamente la lezione di Paul Ricoeur, ma incamminandosi oltre la constatazione che il simbolo «dà da pensare», è anzitutto trovarsi al cospetto dell’intuizione di un possibile, è aprire gli occhi sulle frammentazioni che affliggono l’esperienza, intenderle e “passare all’azione”. I simboli, i simboli poetici, (ma non soltanto, poiché Schurman pone bene in luce la funzione della prassi simbolica, spesso perduta o emarginata, in esperienze elettive come la «festa», o il «canto» e la musica, o ancora nella relazione che l’«habitat» realizza tra uomo e natura, o nel «lavoro» stesso, come reincontro della natura nel segno della sua interdipendenza con l’uomo) «non sono soltanto dei segni dello spirito che parlano allo spirito». Essi sono «del sensibile che parla allo spirito e che muove all’azione». Essi «ci fanno intendere l’integralità possibile dell’esistenza, e, attraverso la prassi che ne è inseparabile, ce la fanno inaugurare». Mediante la prassi simbolica, l’operatività che si esperisce nella fruizione dell’invio simbolico, nel soggiorno presso di esso, nell’«abitare poeticamente», si fa già utopia: inscrivendoci nel destino che essa inaugura, si fa invito ad agire.
«La prassi simbolica restituisce dell’origine una conoscenza non soltanto pellegrinale, ma ancora carnale», dice ancora Schurman. Non si tratta di un’esperienza puramente interiore, è qualcosa che ci trasloca concretamente, è esperienza di trasmutazione. La prassi simbolica ci immette nell’“imminenza” dell’accesso all’infinito, trasmutando la nostra esperienza del mondo all’atto della sua ricezione poetica in rigenerazione simbolica. Del resto è proprio della poesia, già sul piano del contatto sensibile con il suo mundus, questa mutazione indotta dalla caratteristica lentezza e densità, opacità, che, come asserisce Flavio Cuniberto sulla scorta di Kundera, nel suo saggio in questo volume, ci sposta letteralmente in una spazialità altra, ci introduce a una «visione» in cui penetriamo lo spessore e la durata del reale, impariamo a coglierne la “misura”, e in cui ritroviamo, in quanto custodi affidatari di essa, anche la nostra missione peculiare di abitatori “della terra”, come prosegue appunto la poesia di Hölderlin. La «funzione simbolica» ci trasforma e ci impone un diverso orientamento, derivante dall’assunzione del compito ermeneutico cui il testo, il simbolo, ci chiama: prima di tutto interpretazione, nei termini di Corbin, come rivolgimento interiore, interpretazione come ta’ wîl (riconversione, reminiscenza): «il ta’ wîl del testo presuppone il ta’ wîl dell’anima»; l’anima «realizza il ta’ wîl del suo vero essere, appoggiandosi su un testo – testo d’un libro o testo cosmico – che il suo sforzo conduce a una trasmutazione, promuove al rango di un Avvenimento reale, ma interiore e psichico». Ma in secondo luogo anche azione, azione come incarnazione di uno sguardo che ha reintroiettato la funzione legante e operante della simbolica poetica. E che in tal modo si rende perno di una ricomprensione partecipativa del cosmo e del mondo all’interno di esso. Ora, il modello di tale opera di trasformazione radicale è rintracciabile, per molti motivi, nella processualità alchemica, l’occultata e perduta dottrina di ogni operatività fedele alla Terra.
Riconduzione in “Terra” - La connessione tra trasmutazione simbolica e opera alchemica, specie nelle sue conseguenze salvifiche, in cui in gioco è proprio il rapporto tra uomo e mondo, tra uomo e abitabilità della terra, è ripreso in maniera esemplare nell’opera di Françoise Bonardel Philosophie de l’alchimie, dedicata al ruolo che l’arte, come depositaria della tradizione ermetica delle trasformazioni, assume in una tale direzione di salvaguardia. Perché proprio quell’aggiunta «sulla terra» all’«abitare poetico» presente nel verso di Hölderlin intorno al quale stiamo conversando, e che lo stesso Heidegger indica come apparentemente «pleonastico», in verità forse si riferisce a una dimensione fondamentale e al tempo stesso più pervasiva dell’abitare umano.
È di questo che si occupa e che ci disvela il lavoro della Bonardel, ridefinendo il ruolo della terra sia come elemento della materia che come fondamento dell’opera trasformativa alchemica e, al tempo stesso, della poesia come reincarnazione di quella stessa operatività.
È proprio dell’alchimia, infatti, l’individuazione della “Terra”, dell’elemento terra, in tutta la sua ampia significazione simbolica, come principio di accoglimento, di sostegno e di nutrizione di ogni trasformazione, di cui «essa costituisce in qualche modo l’eccipiente o meglio ancora la dispensa che provvede da una parte al nutrimento della materia e dall’altra riceve di ritorno la sostanza che viene dall’alto». E d’altra parte è proprio la «riconduzione in Terra», la «terrificazione dello Spirito», come è anche denominata nei trattati alchemici, a determinare se l’opera abbia avuto effettivamente compimento, se la trasmutazione sia avvenuta e se, quindi, la terra, che ha inizialmente propiziato e ispirato l’opera filosofale, ne ottenga la restituzione e si veda infine dedicataria e beneficiaria di essa. Una terra che apprende a divenire simbolicamente, ma non solo – se pensiamo ai primi lavoratori della materia, che furono gli alchimisti, nella “terra nera” dell’Egitto simbolico –, “limo calcinato” e “cenere viva”. Una «Terra filosofale» in cui la materia, dopo il processo lungo e perseverante in cui si affina e spiritualizza, trovi modo, nel suo estremo perfezionamento, di ricurvarsi verso il basso, giunga a fissarsi, a ricorporizzarsi, acquistando così il potere di moltiplicazione, di “aumentazione” che è anche quello di guarigione e di salvaguardia.
«Non si perde lo spirito discendendo verso la materia ma si guadagna uno spirito ancor più potente», dice Artaud: non si può attingere una irradiante e generosa «globalità», cioè la passione per un cosmo finalmente integro e ritrovato, se non passando attraverso quest’ultimo gesto d’umiltà compatente che è il «ricurvamento» dell’energia sublimata dalla grazia (per dirla con le parole di Simone Weil) in «terrestre pesantezza». «Noi non esistiamo che nell’elaborare la nostra differenza. Ma noi non siamo che nel saperla restituire alla terra», aggiunge Yves Bonnefoy. Il compito del poeta è rammentare, nella sua specifica «prassi», che la destinazione della sua opera è la restaurazione dell’integrità di spirito e materia, di uomo e mondo. Nessuna tentazione di distacco aereo così come nessuno sprofondamento nel nero della yle. L’opera alchemica, di cui il poeta è l’erede e il custode, è fondamentalmente «ponderazione», ristabilimento della circolazione e dell’equilibrio tra cielo e terra.
Forse possiamo leggere qui il significato ermetico dell’abitare umano come abitare poetico che si radica in “terra”, secondo la meditazione heideggeriana di Hölderlin. La terra salvaguarda, in quanto nutrice e dispensa, ma richiede anche di essere salvaguardata: in questo sta forse da sempre il compito alchemico dell’uomo, testimoniato e suggerito in extremis, nella scomparsa di un magistero iniziatico siffatto, dall’alchimia poetica dei moderni e dei contemporanei seguaci di Hermes. Perché si tratta oggi, con tutta evidenza, di farsi carico dello sfruttamento della terra prodotto da un Occidente prometeico e faustiano, che rischia di farle perdere, da un momento all’altro, il ruolo di nutrice e al tempo stesso di «crogiolo», e certamente non solo su un piano simbolico. Ecco allora farsi più urgente che mai il compito trasmutativo nei confronti della terra, e dell’Occidente come «Terra» ancora arabile per un lavoro filosofale capace di preservare uno spazio suscettibile di essere nuovamente mediatore, di essere punto di gravitazione della circolarità e della corrispondenza tra i separati, e rimessa in movimento di ciò che trova una sua figura, o forse una sua «misura», anche nella nozione heideggeriana di «Quadratura».
Le “pratiche creatrici” della modernità, le pratiche poietiche realmente orientate in senso alchemico, si fanno carico, nella loro «prassi simbolica», di una «celebrazione della gloria del mondo compatibile con l’attenzione quasi religiosa portata alle minime cose della terra». Una terra che oggi si tratta di «salvare», letteralmente, «attraverso una deontologia dello sguardo alla quale inizia più di ogni altra cosa l’alchimia». Una Terra di cui si è preoccupato nella sua opus poetica con straordinaria efficacia e profondità Rainer Maria Rilke, in particolare attraverso la nozione preziosissima di «Spazio interiore del mondo» (Weltinnenraum) in cui riscopre la funzione mediatrice e ponderatrice dell’antica Anima Mundi. La trasmutazione rilkiana, come lento, paziente ed oscuro travaglio di approfondimento e maturazione, capace di realizzare l’inversione del visibile in “terra” invisibile, sembra accordarsi rigorosamente con la misurazione dimensionale a cui richiama Heidegger nel tentativo di circoscrivere il luogo e il modo di abitare dell’uomo.
Il lavoro di scavo, indubbiamente fertilizzato dalla disperazione dell’autore, dalla sua personale nigredo, che sentiamo particolarmente acuta nel Diario di Malte, verso la conversione in una «Terra seconda», come la chiamerebbe Yves Bonnefoy, cioè terra immaginale, mondo immaginale: una terra tutta simbolica, tramata dal verso poetico, capace di accogliere e restituire l’invisibile. Lavoro paziente, teso a dissolvere una materia afflitta da un eccesso di estroversione, di esteriorità, di «Presenza con la P maiuscola», che è un autentico lavoro di trasmutazione alchemica. Questo «giardiniere segreto dell’essere» dimostra, nella sua perseveranza endurée, di saper sostare presso una materia sorda e ostica, e nella sua lenta opera di preparazione di quell’«intimità distanziata», capace di restituirne il riaccordo in seno a quell’ «Aperto» da cui tutti siamo precocemente distolti, di potersi assumere il compito supremo del moderno alchimista, alchimista immaginale: quello di «preservare invece che di sfruttare e conquistare», quello di «salvaguardare e magnificare, in ogni cosa, un virtuale splendore».
E tu attendi, attendi l’unica cosa
che infinitamente accrescerà la tua vita
cosa potente, inabituale
il risveglio delle pietre
le profondità ruotate verso di te
canta il poeta praghese. Il risveglio delle pietre che riesce a convertire la profondità in nutrimento inesauribile, il riconoscimento del volto terrestre e della sua apparizione feconda come compito che invoca continuamente di essere perfezionato dallo sguardo trasmutatore dell’artista e del suo «pensiero poetante». Gesto che si opera attraverso l’assicurazione delle cose allo «spazio interiore del mondo», al loro sfondo archetipico. Lavoro di una coscienza che proprio attraverso questo ascolto e questo sguardo può finalmente dirsi «puramente terrestre, profondamente terrestre, radiosamente terrestre».
In questa accoglienza le cose si risvegliano finalmente come «cuore», centro. In essa la terra, finalmente divenuta invisibile, «sovrabbonda» e si manifesta come corporeità gloriosa ed essenziale al contempo. Il poeta è colui che offre questa accoglienza, in cui visione e apparizione coincidono, e attraverso la sua compassione redentrice e trasformatrice si compie per noi il tragitto in grado di attingere dalla vibrazione occulta di ogni cosa un principio di appartenenza e di moltiplicazione.
Ogni cosa infatti merita di essere trattenuta nel crogiolo di un tale sguardo e bisogna essere grati a questa inclinazione umile e perseverante in virtù della quale si restituisce alla terra la sua capacità di essere inizio e fine, sostegno e nutrimento.
Questo curvarsi sulla terra, questo discendere ed essere fedeli ad essa, nella sua trama infinita e irriducibile, individua per noi la cifra di un poetare che sia autenticamente prassi simbolica, operatività guaritrice e restitutiva di una globalità, di una integrità e di una generosità che il nostro «abitare» oggi invoca inequivocabilmente. E che ricostituisce, «per tutti e per nessuno», la circolarità necessaria tra ricerca dell’infinito e compito d’incarnazione.
Testi essenziali: A. Artaud, Van Gogh le suicidé de la societé, in A.Artaud, Œuvres, Quarto Gallimard, Paris 2004; G. Bachelard, Poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1975; G. Bachelard, La poetica della rêverie, Dedalo, Bari 1972; F. Bonardel, Philosophie de l’alchimie, PUF, Paris 1993; Y.Bonnefoy, L’improbabile (1980), Sellerio, Palermo 1982; H. Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî, Flammarion, Paris, 1958; C. Dumoulié, Artaud, la vie, Desjonquères, Paris 2003; G.Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari 1972; M.Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976-1980; P.Ricoeur, Dell’interpretazione, Il Saggiatore, Milano 1966; R.M.Rilke, Elegie duinesi, Einaudi, Torino 1978; R.M.Rilke, Lettere da Muzot, in R.M.Rilke, Poesie e prose, Le Lettere, Firenze 1992; R. Schurman, Le praxis symbolique, in “Cahiers Internationaux de Symbolisme, n.29-30, 1976.
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