Pagine

IL DAIMON DELL'OPERATIVITA' SOCIALE: RE-IMMAGINAZIONE ED ELOGIO DEL MINORE

di Paolo Mottana, www.immaginale.it

Paupera imago

Uno degli aspetti meno confortanti della cultura dell’educazione è la sua mancanza di immagini e di immaginazione. Il suo impetuoso e spesso un po’ patetico tentativo di allinearsi con le cosiddette scienze dell’educazione, il suo sforzo di assicurarsi quella “soglia” di epistemologizzazione che sembrerebbe essere la patente per poter accedere all’empireo dei saperi adulti e competitivi, la sua smania di disciplinarsi, l’hanno spesso condotta a smarrire la sua natura profonda e a adottare, come quei saperi già desertificati e prosciugati, un linguaggio del tutto privo di anima e sangue. Un linguaggio letterale, specialistico, totalmente spogliato di suggestione immaginativa.
L’aver prelevato alle scienze prossime e promosse una terminologia tecnica affollata di sindromi, disturbi, terapie, obiettivi, metodologie o peggio di inglesismi ancor più scarni e miserabili, non ha fatto che sancirne progressivamente l’incapacità a cogliere il proprio nucleo più essenziale.
E il suo nucleo essenziale è quello che alberga nella radice del suo nome, il nome del bambino, la regione della paidìa, lo spazio di uno sguardo che dall’infanzia e dal minore si apra sul mondo, per ri-vederlo, riscattarlo e farvi rifluire tutta l’immaginazione di cui è sprovvisto. In particolare proprio negli ambiti di esercizio delle pratiche educative. Quella del lavoro sociale con i minori e i minorati tra le altre, alle prese con i deficit, le riabilitazioni, le sue pratiche e i suoi contesti socio-educativi, psicosociali, socio-sanitari.

Rivolgendo lo sguardo all’operatività sociale, a questa stessa nozione così generica e allo stesso tempo carica di eredità ingombranti e paralizzanti come quella di “sociale”, credo sia necessario provare a restituirle senso e profondità. A reinterrogarla, a sottoporla ad una re-visione immaginativa.
Bisogna ascoltare il nucleo profondo del senso di quest’opera così apparentemente ovvia eppure così misteriosa e solo parzialmente consapevole. Un’opera che deve rianimare le sue figure, le sue fonti sommerse. Un’opera oscura, trasmutativa, ricca d’anima, simile in questo all’antica opera alchemica, che mirava a distillare salvezza dovendo anzitutto confrontarsi con l’imperfezione e con il dolore della materia in attesa di essere “vista” e rivelata.
L’opera di chi si confronta con il danno e la malattia è un’opera dura, che deve costantemente restare in ascolto del proprio daimon, cioè della sua ispirazione, della sua vocazione interna, altrettanto sofferente, ferita, contusa. Imparando a evitare di scivolare nello stile ispirato dalla figura metaforica del dia-bolus, che invece di connettere spezza, svia, corrompe. Ma senza al contempo disconoscere la presenza misteriosa del male, male inevitabile, presente dentro e fuori di sé, umbra necessaria e irriducibile.
La cosiddetta operatività sociale è- oltre gli eufemismi o i tecnicismi- opera di trasmutazione del male, opera “daimonica” in cerca di salvezza, ed è opera difficilissima, che richiede iniziazione e “discesa”, non certo l’impeto eroico di chi crede di debellare e sanare. E’, anche in questo simile all’opera alchemica, discesa agli inferi e permanenza nelle regioni oscure dell’essere, da cui si attinge, pazientemente, caparbiamente, il sale che la sofferenza secerne, e che consente di fissare lentamente i primi abbozzi di una differenza d’essere, di un’altra, possibile andatura, che trasforma la debolezza in origine e in identità. Che fa della mancanza una fonte e della diminuzione un sentiero di ritrovamento. Che integra il significato dell’annerimento come acclimatamento nella notte della ferita, non solo come soglia o passaggio, ma anche come dimora, come luogo di cui imparare il volto, scoprire la figura, individuare il senso.
C’è bisogno di restituire ispirazione e verità al lavoro di chi percorre la valle dolorosa dell’opera sociale, di restituire al proprio daimon, certamente a sua volta dannato e bisognoso, il devoto ascolto di cui necessita. Non si può curare senza essere feriti, è un adagio molto saggio che aiuta a identificare il volto dell’ operatore, in certo senso a selezionarlo. Quando si perde il contatto con questa fonte preziosa, è difficile proseguire a condividere la casa di chi alberga dentro la luce bassa della diversità. Si diventa aridi, distanti, e pericolosi.
Per questo allora, fra le molte altre piccole operazioni che occorre, quasi ritualmente fare, per rammentarsi ogni giorno la differenza in cui ci si accampa, è anche necessario spurgare i nostri discorsi della facilità di ogni razionalizzazione, di ogni delirio rischiaratore, di ogni fallace polemismo bonificatore, e da ogni retorica ispirata allo sviluppo, alla crescita e all’adeguamento. Non servono né persone né discorsi eroici nel lavoro sociale, occorre invece anima – cioè sensibilità al profondo e all’oscuro, e al piccolo, e al dolente-, e immaginazione danzante, erotica, plurale, profonda. Gli operatori sociali, un poco come i malfattori, sono i “favoriti della luna”, e il loro fare non è votato alla conquista e alla vittoria.
Un altro e prioritario lavoro che occorre fare è però anche, a mio cauto giudizio, quello di arricchire l’immagine, l’immaginazione del volto dell’interlocutore, ritrovandone la genealogia simbolica, la provenienza, indizio essenziale per incominciare a saperne il luogo e, forse, la destinazione (che davvero non sempre coincide con quella omologata e adeguata verso cui si vorrebbe orientarlo, scordando il senso profondo di ogni oriente).


I clown di Rouault

Pensando al mondo affollato di coloro che portano su di sé, per natura o per determinazioni esterne, il segno del danno, e che sono così spesso gli interlocutori privilegiati del trattamento “educativo” e dell’operatività sociale, mi chiedevo quale potesse essere una metafora proveniente dal mondo dell’arte –cioè del mondo in cui l’immaginazione creatrice deposita i suoi simboli più ricchi e profondi- che rendesse giustizia alla loro complessità e archetipicità, che aprisse un’altra visione, possibilmente meno scarnificata e prosciugata, scientificizzata e in fondo eufemistica, di quella che le “discipline” medico-sociali tendono con sovrano distacco ad attribuire loro . E mi sono tornati in mente- fra le molteplici fonti possibili- i quadri di Georges Rouault, specialmente la serie dedicata ai “clown tragici”. I suoi clown tristi e incredibilmente profondi.
Quei dipinti sono saturi di significato, di profondità: in essi, come sostiene Starobinski, si assiste alla “ lotta dell’anima contro l’incarnazione”, una bellissima definizione di una condizione tragica, dolorosa, che è appunto quella che in generale riguarda ognuno di noi nel doversi arrendere alla limitatezza della realtà, al mistero dell’esserci, nelle forme finite che ci sono riservate, ma certo ancor più chi si trova a dover affrontare il mondo in condizioni di particolare minorità.
Nei clown di Rouault una tale minorità è un emblema dell’umano, non una sua deiezione, e i suoi clown ci invitano a uno sguardo retrospettivo in cui molte figure fortemente simboliche compongono uno sfondo e una genealogia di senso. Quei clown rinviano alla maschera di Arlecchino, il buffone, il briccone che confonde tutti i giochi, inafferrabile e ermetico, la cui veste è fatta di brandelli e che probabilmente a sua volta è un’ennesima reincarnazione di quell’archetipo dionisiaco che giace all’origine scura della nostra storia mitica. Dioniso, il dio dell’ebbrezza e delle regioni buie dell’anima, il dio smembrato e poi risorto, come Adone e Tammuz, cifra originaria alla quale guardare quando si interpreta la figura di Cristo. Perché è Cristo, nella nostra più recente cultura, il clown triste, l’emblema di una tragica incarnazione, della differenza e dell’erranza, di uno sguardo attento a ciò che è umile, il dio caduto, smembrato sulla croce e poi risorto.
Nei clown di Rouault riverbera tutto questo, e tutto questo a sua volta confluisce nel restituire al volto spesso sfigurato -dal dolore, dallo spasmo, dall’attrito che la carne prova nel suo rendersi positiva, nel suo resistere anche alle posture più estreme-, dell’ “umiliato e offeso”, un’immagine. Una fra le molte possibili. Quella che mi risale per prima dalla memoria immaginativa, e che mi pare pertinente per arricchirne il senso, per approfondirne l’orizzonte.
L’handicappato, il malato psichico, il tossicodipendente, il criminale – si pensi alla bella e complessa figura di Moosbrugger nell’ “Uomo senza qualità” di Robert Musil- sono spesso come il clown, una figura dimezzata, metà verso la luce e metà verso il buio, ripiegata nell’ombra, figura ambigua, con tracce d’istinto e d’irrazionalità molto pronunciate, tracce di natura dionisiaca, dell’essere “appeso”, capovolto, come l’arcano maggiore dei tarocchi che è la figura dei mutamenti, delle scoperte. In essa convive il Fool sapiente di Shakespeare con il Pierrot lamentoso e profondo dei simbolisti, lo Charlot claudicante e irriverente con la crudezza carnale di certi personaggi della pittura di Bacon, da cui trapela una materialità ferita, ingestibile, disturbante.
Il clown tragico di Rouault è un essere intermedio, lacerato e forse per questo sim-bolico, prezioso e irrinunciabile, come il ragazzo down del film L’ottavo giorno di Jaco Van Dormael, la cui fine tragica è, appunto, anche una rinascita, e non solo per lui.


Mysterium educationis

Il danno, il male psicosociale è, in realtà un mistero. E’ l’esposizione, talora intollerabile, e per questo rimossa, esorcizzata, cancellata, a quel mistero insondabile e tuttavia fondamentale, che è il male, nelle sue molteplici forme. Il gobbo, lo storpio, il lebbroso, il pazzo, tutte icone del male e della sua necessità, solo da qualche secolo cancellate e segregate da una cultura che ha eretto la positività e la sanità – e il suo dissimulatorio linguaggio disciplinato- a suo unico metro di misura e confronto.
L’apoteosi della modernità e della ragione ha liquidato il patrimonio oneroso, da portare, ma pur sempre patrimonio, che le figure che recano inciso sulla propria carne il flagello del male talora hanno saputo testimoniare e far rispettare. Non c’è spazio per il sapere misterico del male, per il suo inquietante esserci, puro e semplice, come monito ma anche come enigma, da trattenere in presenza, da interrogare, da onorare. La razionalità scientifica ha medicalizzato e psicologizzato il mistero rendendolo apparentemente fruibile, in realtà liquidandone ogni senso e stigmatizzandolo nella nientificazione di una diagnosi meramente tecnica.
Del danno, nelle sue molteplici e talora imperscrutabili manifestazioni, va ritrovato l’alone di mistero, il timore e la sacralità di qualcosa che si sottrae alla giurisdizione del sapere positivo e che richiede anche una misura immaginativa, religiosa, per essere avvicinato, e forse compreso. Per contattarlo occorre avere aperta in sé a propria volta quell’area di mistero, conoscere la mancanza, il “buco” costitutivo, talora solo nascosto, che ci fonda. Allora forse, in un comune sentire della ferita, anche il male può essere corrisposto, se non ancora come cura, almeno come amicizia, e condivisione.
Non c’è da stupirsi che esso sia accerchiato dalla preoccupazione del controllo, esso è davvero pericoloso perché ricorda sempre la debolezza, la sragione, il fondo di oscurità che abita l’uomo e la natura intorno a lui. E che minaccia di risucchiare e di mostrare tutta la vanità di una razza di animali che si cosparge parodisticamente con l’olio secco della ragione.
Non c’è da stupirsi che, stando accanto a questo mistero, alla sua celebrazione quotidiana, nei suoi luoghi di culto e di salvaguardia, in questi teneri spazi, i CSE o i Centri di Salute Mentale o i Convitti, si finisca con il deprimersi. E’ una reazione normale, e sensata. In presenza del dolore, del morire talvolta, del male, la psiche dell’uomo ha bisogno di concentrazione, di silenzio, di ripiegarsi, e anche di sentirsi perduta: questo è la depressione, spesso più vicina all’emozione fondamentale di chi vive questa condizione perché inflitta al suo corpo o alla sua mente molto più profondamente che negli altri.
Bisogna allora, piuttosto che adoperarsi in tutti i modi per fugarla, formarsi forse alla depressione, al senso cioè del limite, e dell’essere limitati, finiti, mortali, impotenti, malati e feriti, proprio come i soggetti che abbiamo in cura.
Pare generoso, ma forse un po’ ingenuo allora porsi il problema del benessere, dell’autonomia o dell’impiego – termine evidentemente carico di ambiguità - di questi infelici, come un tempo, con forse maggiore cognizione comune, si usava chiamarli. Non vano, beninteso, ma perlomeno arduo, e complesso, e profondamente enigmatico. Perché quest’alterità che ci sta vicino, e che è molto simile a quella che ci abita, noi spesso non la comprendiamo. Crediamo ancora che possa essere solo sgominata, risolta, sbaragliata a colpi di positività, sia essa camuffata da gioco, da cura o da programmi di professionalizzazione.
Tutte cose sane, forse, ma da commisurare e affondare nello spessore tutt’altro che facilmente discernibile di un’umanità che non partecipa della nostra stessa illusione. E che ci chiama ad una trasmutazione profonda della comprensione stessa del nostro compito operativo.


Il sale della mancanza

Il destinatario dai molti volti dell’operatività sociale è come l’infante, tutti e due sono accomunati dalla mancanza. Tutti e due sono minori, o minorati. Dell’infanzia già è stato ampiamente e autorevolmente detto, della sua originaria manque, del suo essere età deficitaria, per definizione. Età muta, forse per sua fortuna, in quell’in-fari che la coglie nel diniego alla parola ( e dunque al logos, un po’ come la pedagogia che, guardacaso, non è “logica”). Età negletta, ma quanto più immersa nell’aura infinita di un’immaginazione ancora panica. Età che si dice litoticamente per negazione , come l’handicap (dis-abile) in cui il suffisso dis- che si vorrebbe neutro, non può cancellare la sua origine antica che lo voleva prefisso svalorizzante, svilente.
Ma in verità la cultura dell’educazione ha tutto da guadagnare, in profondità e in spessore, dal recuperare questi sguardi sbilenchi o abbassati. Di fronte al rampare euforico, animato aggressivamente dal principio di ragione, di una pedagogia industriale progressiva, produttiva, attiva, uno sguardo che peschi nel basso e nell’ altrove della minorità può essere uno sguardo profondamente sovversivo e salvifico.
Lo sguardo minorato, come una pedagogia minorata, una pedosofìa, vede ciò che ci sfugge, quel punto cieco e quell’ombra riposti nelle molte pieghe che la ragion produttiva vorrebbe stirare e inamidare.
Per nutrire questo sguardo, abbiamo bisogno, più che del sapere psichiatrico o sociatrico, di volgerci ai grandi bacini sepolti dell’immaginario, al museo di immagini che vivificano il nostro approccio al mondo. Dobbiamo ritrovare gli idioti sapienti di Von Trier, le tragiche ma potenti folgorazioni di Woyzech, il teatro di Manfredini, la follia dei “poeti”, degli eretici e dei filosofi che non hanno disertato le oscurità dell’esperienza.
Vi sono infinite immagini, metafore, suggestioni che attendono di essere raccolte, ma noi spesso non ce ne accorgiamo perché siamo troppo risucchiati dal fare, dalla chiamata dl produrre, e dalla nostra stessa paura di confrontarci con le ferite che ci affliggono, e che richiedono tempo, immaginazione, stupore, per secernere il loro sale che, come si sa, è curativo.
La pedagogia, e la sua opera, debbono reimparare a torcersi verso gli autentici depositari del “loro” sapere e smettere di fare il verso ai grandi, che non hanno tempo per le pratiche misteriose e salvifiche dell’infanzia e di tutte quelle creature mercuriali e vagabonde che non possono essere manipolate e razionalizzate. Deve volgersi verso la minorità, la differenza, e saper fare un vaso della sua malinconica condizione di incompiutezza, pari solo a quella di coloro che le sono affidati.
Il luogo dell’operatività sociale, il suo daimon, come quello della pedagogia, è nella mancanza che sazia, nel piccolo che è anche infinito, nell’invisibile che “fa vedere”, nel perduto che fa ritrovare. E’ questa minorazione salvifica che rende l’abitare il mondo meno arrogante, più umbratile e misteriosamente, profondamente consapevole.


Bibliografia minima:

Su Rouault:

Jean Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, tr.it. Bollati Boringhieri, Torino, 1984
Carla Stroppa, L’acrobata nel vuoto, in Francesco Donfrancesco ( a cura di), Figure della devozione, “Anima”, Moretti e Vitali, Bergamo, 2003, pp.49-70

Sulla via immaginale all’educazione:
Paolo Mottana, Miti d’oggi nell’educazione. E opportune contromisure, Angeli, Milano 2000
Paolo Mottana, L’opera dello sguardo. Braci di pedagogia immaginale, Moretti e Vitali, Bergamo 2002

Nessun commento:

Posta un commento