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Joë Bousquet e l’Oltre-nero

di Paolo Mottana, www.immaginale.it

Nella primavera del 1942 Simone Weil, pochi mesi prima di morire nel sanatorio di Ashford, volle conoscere Joë Bousquet: la interessava la sua opera solitaria, ma forse voleva anche condividere con lui, ferito ed esiliato dalla vita, quella vicenda di sofferenza sovrumana e quel tentativo di trasfigurarla in cui anch’essa si sentiva impegnata. L’incontro avvenne alla fine di marzo del 1942, e fu un incontro intenso, una conversazione che durò un’intera notte, in cui due spiriti profondi ugualmente orientati a un’interrogazione estrema sul rapporto tra destino ed esistenza, sulla conversione mutua di poesia e filosofia, scoprirono una profonda affinità. Durante il breve periodo che seguì, si scambiarono alcune lettere. In una di queste Simone Weil scrisse al poeta infermo: «A pochi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono [...]. La scoperta è in fondo il soggetto della storia del Graal. Solamente un essere predestinato ha la facoltà di domandare ad un altro: “qual è dunque il tuo tormento?” E non gli è data nascendo. Deve passare per anni di notte oscura in cui vaga nella sventura, nella lontananza da tutto quello che ama e con la consapevolezza della propria maledizione. Ma alla fine riceve la facoltà di rivolgere una simile domanda; nel medesimo istante ottiene la pietra di vita e guarisce la sofferenza altrui [...] Penso di vedere abbastanza per aver potuto riconoscere in lei questo orientamento».

Bousquet, come la Weil aveva intuito, ottenne effettivamente dalla sua ferita e dall’ombra di morte che essa proiettava su di lui una grazia straordinaria, quella di costringerlo a scoprire, in fondo all’ombra più cupa, la pienezza dell’essere, e a trasmutare questa cognizione in visione condivisa e salvifica, ad adempiere quel «compito eroico e tragico» come lo definisce Jung «cioè gravissimo, [che] comporta patimenti, una passione dell’Io, cioè dell’uomo empirico, comune, quale è stato finora, a cui accade di essere accolto in una più vasta sfera» (XI, 156). Come sottolinea bene Adriano Marchetti, in quanto esiliato Bousquet «si congiunge allo sconosciuto che è in ogni uomo, trasformando la promessa alla morte in una promessa all’opera, nella messa in opera della verità». E quest’ultima frase descrive bene il tragitto, la tortuosa individuazione esistenziale e artistica del poeta di Carcassonne, che ha attinto nella sua tragedia personale il simbolo di una mancanza ben più estesa, inerente alla stessa condizione umana, e ha fatto dell’infaticabile esercizio della scrittura una sorta di terapia visionaria, di speranza e di restituzione consapevole.
«Bisogna che la vita sia uno scandalo per la ragione», annotava in uno dei suoi ultimi cahiers, Note d’inconoscenza; e indubbiamente la sua ha avuto il privilegio di esserlo, la sua vita di déshérité, di volontario recluso, di meneur de lune, sdoppiato fra sé stesso e mon frère l’ombre¸ l’altro sé scomparso che lo osserva da lontano e che lo conduce a percepire il mondo simultaneamente fra sonno e veglia, fra vita e morte, fra luce e oscurità.
Scandalo della ragione, continua metamorfosi in visione, labirintica caduta nel cuore dell’essere, il poeta precipita nell’oscurità, ma è capace di penetrarla, di disegnarne il profilo denso, le sagome incerte attraverso una scrittura fitta, minuta, incessante, spesso impervia. Disceso precocemente all’inferno, o forse da sempre destinato a vivere nel chiarore di un “sole sotterraneo”, ha fatto della sua caduta un trapasso e della sua persistenza in una condizione di anticipata inumazione l’occasione per distillare uno sguardo diffuso, animato da un’etica profonda e indefettibile, quella alchemica di «cogliere la vita nel suo movimento, e ritrarne la materia celeste».

Dopo che, a vent’anni, nel corso del primo conflitto mondiale viene ferito alla colonna vertebrale, Bousquet si ritira semiparalizzato nella solitudine della “camera dalle persiane chiuse” di Carcassonne. Qui, lentamente e pazientemente, in particolare tra il 1930 e il 1950, il suo tempo si tramuta in scrittura, in certo qual modo la “sua carne si fa verbo”, assecondando fino in fondo i versi dell’amico poeta Alibert: «Ascolta divenire verbo la tua carne che va germogliando». Egli trapassa per intero nei suoi scritti, diventando, come lui stesso ha detto, “capro espiatorio del linguaggio”. E in un certo senso si può dire che, attraverso di lui, e tenendolo per così dire in ostaggio, attraverso la sua opera il linguaggio stesso si sia sporto sull’indicibile almeno in parte riuscendo a nominarlo, a indicarlo.
Dopo aver attraversato un lungo periodo di tacito travaglio e di silenzio, quasi dieci anni di elaborazione di quella che gli apparve come una separazione precoce dall’esistenza, come un interramento anticipato, Bousquet comincia a trasformare questo inabissamento doloroso in un varco per estrarre un sapere oscuro, notturno, e ci restituisce poi con una devozione appassionata, temeraria, interminabile, la visione che si dischiude nell’“Oltre-nero”. Egli si nutriva di letture sterminate: alternava i testi condivisi con gli amici surrealisti, da Lautréamont a Nerval a Artaud, ai maestri del passato, da Novalis a Swedenborg fino alla mistica tedesca, Boehme, Suso, Eckart, e poi ancora al neoplatonismo di Lullo, che forse lo aiutarono a schiudere, insieme alla frequentazione della cultura occitanica di cui fu un sensibile restauratore, la crisalide di un’ispirazione, a maturare la sua personale ontologia, quella per la quale divenne poi noto come “un mistico allo stato selvaggio”, un “cataro”, un novello “figlio di Ermete”. E quest’ultimo forse egli è stato più che tutto, nella sua paziente reminiscenza dell’anima del mondo, nelle rêverie cosmiche che costellano le sue opere, nell’adempimento ripetuto di un itinerario di trasmutazione alchemica di quella prima materia corrotta e caotica che era la sua condizione esistenziale.

Un’interpretazione sbrigativa e psicologistica tende a leggere la sua straordinaria effusione immaginativa come una compensazione di quell’esistenza. Ma coglie solo una piccola parte di verità. Infatti il radicamento nel mondo immaginale dell’opera di Bousquet non è soltanto il riempimento di un vuoto, una fuga in un altrove su misura. In essa si manifesta piuttosto la trasformazione del luogo del dolore in un crogiolo ove raccogliere e simbolizzare ciò che la postura di ogni sguardo frontale, eroico, dominatore, non può che mancare, vale a dire la rilegatura essenziale tra ombra e luminosità, tra fondo e superficie, tra intimità e immensità. L’incidente ha avvolto l’esistenza di Bousquet nell’ombra, ma dell’ombra Bousquet ha fatto il perno di una autentica sovversione epistemologica, quella che fonda una cognizione poetica, una conoscenza visionaria e materica, notturna e celeste ad un tempo. E al contempo gli ha consentito di farsi tramite, mediatore di una rivelazione inesauribile.
«Accetta la tua infermità: desiderala. Cerca di elevarti fino alla grazia che sta in fondo ad ogni eccezione. Sii... il morso dell’aratro, sii la terra che si apre. Accetta il tuo male come la prova capitale della tua capacità d’invenzione. Senza orgoglio, certo. Laboriosamente, fai di tutta la tua vita la saggezza dell’avvenimento che ti ha gettato fra i morti. Che cosa temi? Ciò che ti impedisce di essere all’altezza del tuo dovere più che di te stesso...», si ingiunge nei “quaderni bianchi”, mistici, Bousquet. Un’ingiunzione che si rende regola di vita, imperativo sostanziale. Egli è l’aratro che scende nella terra e la terra stessa che si apre, penetrazione e accoglimento, il seminatore e il seme notturno da cui il mondo può attingere nuova linfa.
La sua parola frantumata, smembrata, disseminata in innumerevoli quaderni, sbriciolata in minute schegge eppure torrenziale, diviene l’autentica dimora di questo pensatore remoto, inattuale, un “nuovo gnostico”, instancabilmente impegnato nel compito di risanare con il verbo la frattura che la postura scomposta di uno sguardo razionale ha imposto alla vita. La sua scrittura disgregata, mai veramente compiuta, interrotta, sempre sul punto di naufragare, di abolirsi, ma costellata di suggestioni, frantumi di sogni, abbozzi di miti, esordi di novelle, debordante di immagini, simboli, appare soprattutto orientata a contrastare ogni discorso affermativo, positivo, de-cisore.
Chi vive tra veglia e sonno, in quel crinale azzurro lavanda che tinge l’“alba sotterranea”, è soprattutto preoccupato di salvaguardare la vita dalla sua deriva di scissioni e corruzioni: «Il mondo sarà l’apoteosi della discontinuità e dello smembramento se noi non lo avvolgiamo nel sogno in cui i nostri occhi si ricordano». Bousquet, che abita la penombra, conosce le insidie della luce, il suo potere di distrazione, e di distruzione: «Il mondo in cui vivo è oppresso dal peso della luce, di quella luce in cui non posso penetrare senza che tutti i pensieri che porto in me divengano trasparenti ed evanescenti come spettri [...]. Non si può dimorare nell’orrida luce, sotto l’orrenda pioggia dei raggi; se qualcuno, preventivo quanto me, vi resta ancora, è perché non sa da quale parte afferrare la notte».

La vera conoscenza è pratica dell’inconoscenza, forse parente di quella “nube della non-conoscenza” come “ricerca orante del nulla”, di cui si fece interprete un anonimo monaco inglese del XIV secolo. Certamente discorso negativo, come nota Annamaria Laserra, che «appartiene per sua natura all’ordine dell’indefinito, del discontinuo, del frammentario, e non può quindi che esprimersi in note». Proprio perché si sporge in zone proibite alla comprensione razionale – «non considerare valide che le certezze suscettibili d’oltrepassare l’intelligenza e di mettere in scacco le sue lezioni di morte», dichiara l’autore senza mezzi termini – proprio perché conoscenza d’anima, - «l’anima vuole che la conoscenza sia la rivelazione della sua essenza, dunque l’oblio del conosciuto» - l’inconoscenza, trova il suo strumento soprattutto in un linguaggio allusivo, poetico, esoterico, una “controscrittura”, come egli la definisce nel romanzo autobiografico Traduit du silence.
È essa lo strumento privilegiato, una parola ellittica, «peristilio del silenzio», che fruga l’enigma del sottosuolo. Più si penetra la «notte della materia che è quella dell’anima», più ogni confine, ogni idea chiara e distinta si diluisce e perde il suo senso. La discriminazione del giudizio evapora al contatto di quella soglia d’inconoscenza che occupa le profondità dello sguardo.
Il linguaggio poetico si fa mediatore fra esistenza e essenza, nella metafisica bousquetiana, fra pensiero e immagine, ogni parola è parola di soglia, irradiamento di possibili, e il poeta ne è il “passeur endormi”, secondo un’altra delle sue figure emblematiche, il traghettatore assopito, privo di luogo, partecipe di una realtà ulteriore, mediana, immaginale. Scrittura della nostalgia, della lontananza, dell’assenza, la lingua di Bousquet è immersione in territori inesplorati, è incontro con figure inafferrabili e perturbanti, che non sono affatto risolvibili in fantasmi o semplici sdoppiamenti dell’autore, come una sbrigativa interpretazione patologizzante potrebbe autorizzare a credere, ma che appaiono invece autentiche emergenze di quell’universo notturno del quale egli si fa ermeneuta e psicagogo.

Egli rivive la frattura inferta dall’emergenza della coscienza, dell’individualità. Come scrive nella bellissima prosa dedicata all’amico Paul Eluard, Le mal d’enfance, «ogni coscienza è dolorosa: l’esistenza è la piaga dell’essere. E il mondo è nato da questa ferita». Sa di essere lo specchio che irradia il significato profondo di un’umanità esiliata e ferita: «Talora la fatalità ferisce un uomo. Lo spettacolo delle sue sofferenze insegna a coloro che lo vedono che non vi è individuo senza ferita. L’individualità stessa è la ferita». Immergendosi in questa cognizione e nel suo sostrato profondo può attingere la qualità risanatrice della vita immaginativa. Prendendo le distanze da quello che definisce il “pazzo del sole” - l’uomo che si è strappato dall’unità delle origini e che «si è riempito dell’immobilità dell’astro splendente come di una terribile vertigine» - Bousquet si converte alla notte, si rifugia dalle parti delle tenebre e dell’invisibile, ritraendone tuttavia un potere di visione dilatato, contaminato con il femminile profondo e con il suo potere generativo.
Il suo ritiro è radicale: nessuno sforzo eroico di ritrovare il mondo, la luce, l’attività. Sempre più disinteressato a mescolarsi di nuovo all’esistenza, egli sceglierà di sottrarvisi totalmente: «Non essere da nessuna parte. È il miglior modo di aiutare ad essere il luogo di cui tu sei...». Si ritrae nel silenzio e nella solitudine atemporale della sua camera in penombra, l’“oubliette aerienne”, piccola “cella” aerea dalle finestre oscurate, le pareti tappezzate dai quadri degli amici pittori, Ernst, Magritte, e poi Dalì, Fautrier, Dubuffet, “finestre” che si aprono su un mondo «che noi conosciamo senza saperlo». Luogo di pellegrinaggio di molti intellettuali dell’epoca, i più cari resteranno Gide, Eluard, Estéve, Daumal, Suarés, Bellmer, Aragon, Paulhan. E delle molte amiche, cui destinerà i suoi epistolari ricchissimi, in particolare Ginette e Germaine, quest’ultima nominata attraverso uno dei suoi trobadorici senhals – alla pari di Isel, Hortie, Blanche-par-Amour, Houx-Reinette, Abeille d’Hiver...- come Poisson d’Or.
Ma luogo di silenzio soprattutto, di lettura e di contemplazione. È qui che Bousquet, in un certo paradossale senso, “ascende” al lato inferiore della vita. Così l’“oubliette aerienne” diventa “oubliette souterraine”, ed egli si fa attento a ciò che cresce e si manifesta in quel mondo altro, invisibile, rovescio ed origine di ogni cosa: «Nella notte che mi hai dato per dimora vedrai che avrò saputo far sorgere la luce chiudendo gli occhi». Infatti lo spazio fisico della maison, la profondità intima della cella sotterranea di Bousquet appare come trasfigurazione di un interno più ampio, anzi immenso, figura di quella “rêverie cosmica” di cui ha tessuto la fenomenologia la passione poetica di Bachelard: essa diventa «il mondo interiorizzato nelle profondità carnali dell’androgino cosmico, dunque il corpo umano nel suo rovescio segreto», come spiega Nicole Bhattacharya nel suo testo fondamentale sull’opera del poeta francese.
Bousquet, tranciato dal mondo, reso simbolicamente e letteralmente impotente, si trova in quella condizione di speciale “grazia” intuita da Simone Weil, ma anche di responsabilità al limite dell’umano, che consiste nell’incarnare e dare forma ad una guarigione molto più ampia di quella personale. Per lui questo compito si traduce nell’inseguimento simbolico dell’unità primigenia, nel compito primario di “generare l’uomo nuovo”, maschio e femmina insieme, impasto celeste-materico. Ma per ottenere questo è necessario rientrare in contatto con una “notte interiore”, “notte tiepida” e generativa, «la stessa sotto la terra e nelle viscere, nei frutti, nel cervello che pensa». Una «notte minerale, notte di fonte, la stessa in tutte le profondità materiali, uterine, organiche». «Notte assoluta che dimora nelle nostre ossa, che è la carne della nostra carne». Lì, dentro l’“Oltre-nero”, in contatto con quella “femme au fond de mon être” che è il risvolto interno del corpo maschile , ma anche delle cose, è possibile attingere l’unità androgina, la materia assoluta, il fondo da cui si sprigiona ogni funzione creatrice e la stessa salvezza del mondo.
Crescere è qui più che mai discendere, secondo il motto alchemico ripreso da Hillman. E non si tratta di un’operazione di perdita e di fusione in un’unità indifferenziata e caotica. Piuttosto, il processo di annerimento che caratterizza questo movimento consente di bagnare lo sguardo in un crepuscolo rigeneratore, di fare anima. È necessario lasciarsi andare – la Gelassenheit teorizzata nella mistica medievale, che Bousquet amava e conosceva – ma non come condizione per una eterea ascensione, quanto piuttosto per una equilibrazione, una ponderazione dinamica orientata a ritrovare l’integrità perduta di soggetto e oggetto, così come di inferno e superno. Bousquet vuole aderire alla “vita”, nozione che ingloba talora nel suo linguaggio quella di “essere”, quell’unità da cui si è irrimediabilmente separati, e che nessuna esistenza “letterale” può fino in fondo adempiere: «Noi non siamo che uno specchio, ma che si pensa attraverso la realtà degli oggetti che riflette. Vogliamo raggiungere il reale di cui non siamo che una promessa». «Uomo, rammenta questo: tu sei tutto quello che non è, meno il poco che sei».

L’opera di Bousquet si realizza in una terra intermedia, in un luogo liminare in cui, in virtù di una progressiva spoliazione, di un naufragio nell’impersonalità del linguaggio, si perde di riga in riga il soggetto: l’io si avvicenda al lui, il noi al voi, al tu, più spesso si neutralizza nel “si”. Nella sua scrittura frammentaria, come ha notato Isabelle Chol, la voce narrante, spesso in posizione passiva, è un “quasi-soggetto” disposto «fra sogno e risveglio, fra vita e morte, fra pensiero e ragione rifiutata, uno stato intermedio tra smembramento e unità». D’altra parte, la “conoscenza della sera”, di agostiniana ascendenza, conoscenza negativa, in cui la “sera” (come l’alba) simbolizza la dimensione transizionale, il punto di equilibrio fragile in cui si verifica la congiunzione tra gli opposti, presuppone l’abbandono dell’io, anzi la sua distruzione, come ha sostenuto Carlo Suarés nella sua Critica della ragione impura.
La “rondine d’aria pura”, una delle figure-valore di Bousquet, uno dei suoi emblemi, vive soltanto nel respiro dell’Essere. Benvenuta dunque la ferita «che ha veramente fatto il mio benessere dispensandomi dal pensare a me». È in virtù della “capacità negativa” di cui parlò Keats, la sopportazione del vuoto di cui si chiede prova nella caduta, che si dischiude la possibilità di partecipare effettivamente alla psiche del mondo, alla sua intimità profonda, alla sua interiorità. Lavorando questo vuoto lo sguardo si stempera, si distacca dall’autoriferimento e si apre alla ri-conoscenza dell’altro. Come Bousquet dice in un passo fondamentale di Mystique: «Vi è una metamorfosi da operare. L’uomo era un intellettuale, ora diviene un contemplativo». Perché «tu hai il tuo essere in ciò che vedi». «L’uomo si riconosce nell’albero, nel vento [...] tu non devi benedire l’albero, il vento se tu non sei, con tutta la tua anima, consacrato alla vita del mondo. I fatti saranno lo specchio della tua anima se la tua anima ha in sé la grande notte del mondo».
Vi è come un arretramento-sporgimento verso quell’“infanzia anonima, vegetale” – per nominarla con le parole di un altro grande poeta dell’immaginazione, Gaston Bachelard – che contraddistingue archetipicamente il punto di congiunzione fra uomo e natura, e in cui quest’ultima è ancora vissuta attraverso uno sguardo animato. Echeggia nel poeta di Carcassonne la stessa ricerca paziente, mite, infaticabile, dell’“interiorità del mondo”, delle cose da sospingere nell’invisibile, da dire, poiché a questo l’uomo è chiamato, che dilagava nell’opera di Rilke. Come il poeta praghese, egli coltiva il culto degli oggetti ed è sensibilissimo alla loro voce: «È necessario che l’apparenza delle cose mi sia consacrata. Era sotto la forma che esse prendevano per commuovermi che il mio sguardo diveniva la luce del mio cuore...».
Bousquet è parzialmente cosa esso stesso, immerso negli elementi, di volta in volta minerale, vegetale, animale, ma sempre orientato al luogo di sutura, di sim-bolizzazione tra il materiale e lo spirituale. Egli ama in tal senso figurarsi “albero”: il suo corpo a metà “interrato”, si comporta infatti come un albero. Unisce acqua e cielo sprofondando le sue radici nella terra e sciogliendo le sue fronde nella luce. Come gli alberi, che «conoscono il numero delle stelle e le contano insieme ai vostri giorni e nulla può farglieli dimenticare» e che «sono assenti da questo mondo a forza di assorbire la loro anima nella gioia di rivelarlo», è testimone muto e sottratto di tutto, e tutto restituisce.
Il poeta è confitto tra cielo e terra come l’albero e come lui li riunisce, si fa loro mediatore, e, attraverso il movimento che gli imprime il vento, li canta e li benedice. Egli abita questo spazio frammezzo, ermetico, asseconda la sua vocazione a stare in un non-luogo, quello che, per Corbin, più che situato è “situativo”, orientante: «Un albero non sta da nessuna parte. Lo spazio è in lui come il miele in un’arnia».
Egli è intermedio, e allo stesso tempo mediatore, ispirato da Eros e da Ermes, e non a caso i suoi personaggi portano i nomi di fragili e impossibili unioni, quasi di ossimori, Galant de neige (Innamorato di neve), Passeur endormi (Traghettatore addormentato), Meneur de lune (Guida della luna), oscillando fra molteplici significazioni, sempre sospese sul tema della morte e della perdita, in cui costantemente torna il motivo dello scomparire e del riemergere, come anche nelle figure evanescenti di Iris et Petite Fumèe. Allo stesso modo le bizzarre allegorie che propone di sé stesso appaiono sfuggenti, inafferrabili, ambigue: la «fata dell’aria che errava nelle altitudini mescolata alla trasparenza del giorno e che vedeva il suo corpo nel lago in cui si rifletteva il contenuto del suo sguardo». Talvolta ironiche : un «poveraccio che svegliandosi cieco per una terribile malattia, gratta a lungo il terreno, credendosi in fondo a un pozzo dove pensa di trovare un tesoro».

L’apprendimento della notte lo familiarizza con l’impasto indiscernibile del reale, con la sua materialità solidale, e la sua poesia, la sua poetica rispecchiano fedelmente questa partecipazione. La sua lingua sconvolge vertiginosamente lessico e sintassi promuovendo l’interscambio continuo tra interno ed esterno, tra maschile e femminile. La visione di Bousquet è già concrezione dell’indiviso, ed esso si dispiega in immagini avvolgenti, nelle quali ci si perde come in un labirinto che tuttavia non conduce alla dissoluzione, ma all’integrità del tutto. Le sue poesie, per lo più riunite nella raccolta intitolata La conoscenza della sera, sono l’apoteosi di questo procedimento in cui lo sguardo realizza davvero la congiunzione e l’attingimento di un corpo spirituale. Ogni poesia, seppure in modo diverso, sembra esprimere lo snodo cruciale della sua ontologia dinamica, l’esperienza di ricongiunzione androgina che l’immaginazione animata da Eros e sprofondata nella “notte di fonte” gli permette di compiere. Ecco qualche verso dalla poesia L’autre:

«Si je pouvais te faire mienne à forze de te trouver belle et me livrer en toi à l’homme que je suis
Et me blesser en te frappant abolir quelque chose de moi que je ne peux tuer que dans l’enfant que j’aime
Un autre temps commencerait dans ce mots trop clairs pour etre comprîs».

(Se potessi farti mia a forza di trovarti bella e abbandonarmi in te all’uomo che sono
E ferirmi colpendoti annientare qualcosa di me che posso uccidere solo nella bambina che amo
Un altro tempo comincerebbe in queste parole troppo chiare per essere comprese)

Parole “troppo chiare per essere comprese” quelle che il poeta rivolge alla sua amata-infante, in cui l’assiduità del contemplare la bellezza si fa leva di un’introspezione profonda, dove anche la ferita, il contatto mortale che permette a due esistenze di interpenetrarsi, può giungere a rivelare la coappartenenza all’essere trascendente, inaugurare un altro tempo, salvifico.
Così nella poesia Mûrit la nuit la notte matura veramente e rende possibile lo sconfinamento e la congiunzione, veri e propri mezzi di ritrovamento dell’unità perduta:

«En cherchant mon coeur dans le noir
mes yeux cristal de ce que j’aime
s’entourent de moi sans me voir

Mais leur ténébre est l’amour même
où toute onde épousant la nuit
dans mes jours se forge un sourire

Afin qu’au traits où je le suis
sa transparence ait pour empire
mon corps en soi-même introduit ».

(Il mio cuore nel buio cercando
gli occhi miei cristallo di ciò che amo
di me senza vedermi si circondano

Ma la loro tenebra è l’amore stesso
dove ogni onda sposando la sua notte
nei miei giorni un sorriso si forgia

Affinché nei tratti in cui lo seguo
la sua trasparenza abbia per dominio
il mio corpo in se stesso penetrato)

Nella prima terzina, (tentando ora una traduzione forse impossibile e rischiando di sovrasignificare i simboli), l’amante che insegue la profondità del proprio essere si rende trasparente all’amata, perdendosi e smarrendo la forma individuale. Nella seconda la tenebra che si dischiude in questa compenetrazione si rivela il luogo dell’amore, di un amore che tutto unisce in una ritmica ondulazione che conduce a irradiare il suo benessere sul mondo. Nell’ultima l’amante che segue l’amore ritrovato vi riconosce i tratti di quella trasparenza che contraddistingue l’esistenza individuale riconnessa all’infinità dell’Essere.
Le poesie raccolte nella Conoscenza della sera concentrano in maniera complessa ma stilisticamente compatta, grazie alle procedure retoriche utilizzate, dal metro alle figure, specialmente l’ipallage, ai suoni molto densi e fluidi, i temi della sua ricerca, di questa sua opera di reintegrazione del soggetto alle sue origini, al “corpo astrale”. La lingua delle sue poesie conserva, attraverso una vera e propria “alchimia verbale”, la materialità e la densità che le viene dall’appartenere al corpo delle cose e alla sua essenza invisibile, dall’esserne fibra, carne, germoglio. La liquidità, percepibile particolarmente a livello fonosimbolico, il mèlange, compresenza di sensazioni opposte (chiaro-scuro, morbido-duro, ecc.), l’inversione tra significanti luminosi e suoni notturni che favoriscono un effetto paradossistico, come ha sottolineato Annamaria Laserra, simulano costantemente l’esigenza persistente di alleanza dei contrari, e in un certo senso ci offre viste dell’invisibile o forse più appropriatamente visioni invisibili. Nella poesia Reflet si coglie che l’essenziale accade proprio oltre il visibile: l’albero e la sua ombra cercano di strappare a “dita sconosciute” il riflesso della falce mortale che possa incamminare verso il mare che circonda il mondo, luogo che simbolizza la grande notte dell’essere:

«Une mer bouge autour du monde
l’arbre et son ombre en sont venus
ravir à des doigts inconnus
la faux qui luit dans l’eau profonde».

(Un mare si muove intorno al mondo
la pianta e la sua ombra sono venute
per carpire nell’acqua a dita sconosciute
la falce che riluce nel profondo).

I simboli e le forme di questa ricerca ritornano frequentemente anche nei suoi epistolari amorosi, dove in un certo senso si incarnano, specie nell’ultimo con la giovanissima Poisson d’Or-Germaine, per la quale nutre un amore dilatato dalla distanza (forse anche anagrafica), un amore fatto di lontananza e d’immaginazione: «Io mi sento vivere nelle tue viscere, come se i tuoi ricordi avessero lentamente introdotto la mia anima in tutta la profondità della tua carne. Allo stesso modo, io ti porto in me: a ogni battito del mio cuore, il mio corpo è attraversato dal candore del tuo, una fiamma mi percorre. La tua bocca è nelle mie labbra, la tua voce è il tesoro della mia voce. Il tuo essere è nel mio come una lampada nel giorno, che brilla quanto più lo spazio si richiude su di lei. La tua figura si sovrappone alla mia e se tu fossi là, se potessi rivelarmi il tuo corpo, se lo premessi su di me, non farei che penetrarmi maggiormente di quest’anima a tua immagine che brucia dentro di me».
L’incontro amoroso è filtrato dallo “sguardo ermetico” di Bousquet e distilla una ricongiunzione a più livelli, consente di attingere la pienezza di cui l’esiliato nutre nostalgia e di devolverla verso l’esterno. In questo senso egli parla di “esoterismo” dell’amore, considerando ogni relazione un incontro iniziatico, trasmutativo, moltiplicatore. È soprattutto attraverso questi incontri, incontri reali fluidificati e deletteralizzati nell’immaginale, che Bousquet riscatta il mondo, lo rigenera: «Voi sapete che il mio amore per lei si compie letteralmente in una visione più perfetta del mondo e che questo effetto poetico e mistico della mia conversione alla vita si appoggia in me su un affidamento totale... ». E, in un’altra lettera sempre indirizzata a Germaine: «L’uomo e la donna vivono e con essi il mondo che abitano. Si direbbe che essi abitano un’anima e che questo grande corpo stellato voglia talora entrare nel loro amore e prendervi coscienza di sé stesso».
Quale dichiarazione più netta del potere rigeneratore dell’amore e dell’amore immerso nell’operatività di uno sguardo ermetico? È questo amore mistico la pietra sulla quale e attraverso la quale Bousquet può sperare, invertendo l’entropia di un universo dove echeggia la diserzione e il silenzio di Dio, di compiere una apprensione dell’essere come di un tutto in cui ogni cosa intrattiene un rapporto di reciproca simpatia, un “grande corpo stellato” infuso di anima: «Non vi è nulla se non personificato. Il vedere è visione. Ogni suono contiene una voce che è risposta a un’anima che s’interroga».
La percezione del mondo, dopo questo bagno androginale, diventa qualitativa, totale, generosa. Si realizza una metamorfosi, una trasmutazione che è autentica coincidentia oppositorum: «L’amore vorrebbe che lo sguardo entrasse nello sguardo come se ne fosse la fonte; e che la sensazione fisica fosse nello stesso tempo il pensiero», è scritto nella Tisane de sarments. La relazione erotica opera come “alchimia visuale”, secondo l’espressione di Francoise Bonardel, e si prolunga nell’autentico compito dello sguardo, quello di un “vedere secondo natura”, in cui uomo e natura sim-bolizzano l’uno con l’altra.

Bousquet si trasfonde poeticamente nel mondo, assecondando un’ispirazione contemplativa, amorosa contemplazione, “mistica” appunto, antitetica a ogni seduzione dell’agire: «L’uomo non ha che un modo di pervenire all’esistenza, che è quello di compiere l’esistenza di ciò che contempla».
Tutta la sua opera è segnata da questo sforzo, sforzo di trasporre in immagini, in mitofanie, attraverso il linguaggio, il luogo-non luogo in cui si pacificano i contrari. Sforzo reiterato, intervallato dalla percezione di una dolorosa insufficienza, ma anche capace di offrire visioni che realizzano il contatto con la prospettiva di un mondo effettivamente risanato dallo sguardo. Testimonianza irriducibile del desiderio di partecipare un universo radicalmente altro da quello scomposto e desertificato dall’“im-posizione” razionale. Un universo mai astratto, mai perduto nella mortificazione del concetto, mai sublimato, immerso piuttosto nell’oscurità vissuta del corpo, della sua notte carnale, in uno spaziotempo transizionale, capace di riconnettere notte e giorno, materia e spirito.
La radicalità di Bousquet è profondamente legata all’endurance di cui ha dato prova sopravvivendo all’abisso della ferita. Dalla lenta triturazione del magma scuro di cui essa è impregnata, dalla distillazione del suo siero, ha ricavato l’elisir di uno sguardo consacratore. Ha guadagnato una visione decantata ma non disincantata, prosciugata da ogni velleità eroica e orientata amorosamente verso il Tutto. Lui che ha poeticamente distinto “parole-ossigeno” e “parole-azoto”, ha certamente rifornito il nostro vocabolario di una sovrabbondanza di linguaggio respirabile, anzi rigenerante. Parole che lodano, che benedicono il mondo.
Bousquet ha patito fino in fondo il suo luogo e lo ha reso crogiolo di irradiamento e di moltiplicazione simbolica: «Sono stato messo al mondo al fine di donare il mio cuore alla vita». Ha tradotto il suo deserto e il suo silenzio in forma vitale, donando spessore al remoto e all’oscuro: «Come essere la salvezza di una vita che, attraverso la sua sola immagine, mi faceva dimenticare che io ero vivo... Io ero un paesaggio d’inverno immerso nel freddo dove la corrente di un fiume portava dei pesci morti. Non ero che prigione, che solitudine, ma nondimeno speranza, perché ero dolore. Che la cosa che afferro, mi dicevo, sia il mare interiore di ciò che sono...»

Alla fine, la sua conversione all’essere è integrale, un’accettazione che gli consentirà di concludere, il 4 settembre 1949, a pochi mesi dalla sua morte, l’ultima lettera spedita a Germaine con la serenità di un compimento: «La mia vita è esteriormente una vita di scarto, ma io non ne desidero un’altra. Io non sarei cresciuto se non volendola tale quale mi è stata inflitta, facendo della sua prova un oggetto del desiderio... È fatto, ciò che doveva essere, è».
La sua devozione, all’opera, alle cose, alla responsabilità dal volto oscuro che ha scelto la sua esistenza, si è manifestata nella tenacia febbrile di un immenso lavoro poetico e riflessivo, e resta una testimonianza stupefacente, tutta da meditare e ripercorrere. I suoi scritti ci appaiono oggi soprattutto un grande sforzo di restituzione, per cui «conoscere è mettersi nelle condizioni di donare», un’espressione di gratitudine e infine di dissolvimento nell’anima del mondo, come ci pare voglia farci capire con le ultime parole del suo ultimo quaderno, Note d’inconoscenza: «Quando tu avrai oltrepassato la sensibilità facendo in te la Giustizia intera... ».
Aveva capito che il mondo immaginale può ricompensare infinitamente la ferita inscritta in ogni esistenza, poiché «esistere è per un uomo essere ad un grado infimo» e nondimeno «ciascuno è l’errante e la terra promessa».

Le opere di Joë Bousquet consultate e citate sono: Tradotto dal silenzio (1941), Marietti, Genova 1987; L’œuvre de la nuit, Montbrun, Paris 1946; Correspondance, Gallimard, Paris 1969, t. I; Mystique, Gallimard, Paris 1973 ; Lettres à Ginette, Albin Michel, Paris 1980; Oeuvre romanesque complète, Albin Michel, Paris 1979-84, 4 voll.; La conoscenza della sera(1947), Panozzo, Rimini 1998; Lettres à Poisson d’Or, Gallimard, Paris 1967 ; Note d’inconoscenza(1967), Elitropia, Reggio Emilia 1983. Ad esse si aggiunge: SimoneWeil - Joë Bousquet (1957), Corrispondenza, SE, Milano 1994. Sono stati inoltre consultati i seguenti studi su Bousquet: Charles Bachat, Joë Bousquet, l’homme nébuleuse, Lettres Modernes, Paris 1993; Nicole Bhattacharya, Joë Bousquet. Une expérience spirituelle, Droz, Genéve 1998; Francoise Bonardel, Philosophie de l’alchimie, PUF, Paris 1993 ; Isabelle Chol, Joë Bousquet, la connaissance du soir. Les éclats du sujet poétique, in « Francofonia », n.40, 2001; Annamaria Laserra, Joë Bousquet. La ferita e la parola, Bulzoni, Roma 1994; Adriano Marchetti, Nella verità del proprio essere, in Simone Weil - Joë Bousquet, cit.; René Nelli, Joë Bousquet, sa vie e son oeuvre, Albin Michel, Paris 1975; Paolo Mottana, “Fratelli-ombre”: la “notte di fonte” di Joë Bousquet, in P.Mottana, L’opera dello sguardo. Braci di pedagogia immaginale, Moretti e Vitali, Bergamo 2002.

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