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COMPRENDERE POETICAMENTE

di Paolo Mottana, www.immaginale.it

Figura dell’immaginario

La comprensione è forse il massimo scacco del nostro esserci, del nostro essere insieme che non può che essere così. La figura irriducibile dell’altro sempre lontano, dell’altrove sempre presente come una filigrana al tempo stesso insostenibile e inestimabile, fonte sovrana della nostra più profonda melanconia. L’insuccesso ad essere tutt’uno anche con il semplice intorno che ci raccoglie e talora ci accasa, se non per rapidi e fuggevoli incanti, è forse la nostra cifra.
Non poter cogliere appieno ciò che s’approssima o che approssimiamo, la sua separatezza, sopportare il nostro ineludibile imporci al tutto avvertendo la lacerazione di quel tessuto che originariamente ci deve aver compreso è la condizione da cui si prova, istintivamente, compulsivamente, e comunque votati al naufragio, a ricercare il legame perduto. Questo movimento verso l’altro, che ha sede prima che in ogni altro luogo nella nostra rappresentazione e immaginazione, lo chiamiamo comprendere.
Dal che si deduce, in prima approssimativa istanza, che esso, il comprendere, come gesto intenzionale che tenta la via dell’altro (la propria freccia scagliata già sempre nella sua direzione, potrebbe dire con un po’ di fantasia Husserl), la sua presa integra, non ottiene mai piena realizzazione, mai diventa davvero adeguata. La comprensione è in verità una figura dell’immaginario, un’illusione e una parvenza che può assumere le vesti meravigliose e incandescenti di un dipinto, di una narrazione, di una preghiera, più spesso di una qualche insidiosa forma di razionalizzazione, che però si rivela la via forse più difettosa a render conto della mirabile infinita dispersione di cui l’altro ci investe e che nessun atto di riduzione sintetica può contenere né dominare.
La comprensione, come sostiene Maria Zambrano, è atto di pietas, compassione per ciò che inevitabilmente è perduto e che reclama cionondimeno di essere avvistato, accostato, accolto. Ma è anche l’atto dolente che ben conosce per esempio l’amante quando cerca di ritrovare nell’espressività elusiva e delusiva dell’amato le linee di un’improbabile costellazione di significati afferrabili. Lo conosce meglio di chiunque altro forse l’amante che anela tra i più devoti al gesto di comprensione perché ad una comprensione, malauguratamente fragile e caduca, è spesso sospesa la sua gioia.
A lui si dovrebbe chiedere il guadagno offerto dallo sporgersi in un atto di sovrana empatia, seno contro seno, volto contro volto, fluendo come materia liquida dalle proprie nelle altrui vene, verso l’amato. E da lui, sempre, non può che ritornare la mano vuota, la mente confusa o solo affollata di incerte e vaghe immagini di ciò che s’è impresso di un contatto ustorio ed estatico, di un momento uno e poi subito perduto per sempre. Come chiedere al padre, al maestro, all’amico, al figlio lo stesso sguardo, la stessa emorragia di sé che può provare l’amante, il più motivato dei comprendenti, il più ostinato? Come chiederlo alla nostra volontà di modesti cercatori?
Non vi è mai piena comprensione, né dell’altro che erge come una barriera l’estraneità abissale del suo volto e della sua figura al nostro domandare, né, men che meno, della cosa altra, per la quale, per misurare la cui densità, intimità, figura, nessun Panico è sufficiente, nessuna adesione anche ebbra può sciogliere il silenzio profondo pari solo a quello della Sfinge.
Acquisire fino in fondo la certezza dell’insufficienza d’ogni comprendere è probabilmente saggia misura e anche come un vaccino contro la ubris dell’accumulo di strumenti d’inquisizione sagomati per penetrare nel corpo refrattario del mondo, per sondarne con ogni mezzo, dall’empatìa come forma quasi organica dello sporgersi fuori di sé, al siero chimico della verità come misurazione della bugìa e sentenza materica di quel lontanissimo che sempre rimane fuori portata, l’essere.
Questo è il carattere del nostro stare, tra il tutto, ed entro il tutto che noi stessi siamo, oscillando fra continui e altalenanti sentimenti di presa e di perdita d’essere, come salmodiava con incantevole misura Rilke nelle sue Elegie. La comprensione è indubbiamente una forma del nostro stare, come è stato autorevolmente posto, ma se la sua motivazione è certa, la sua modalità è ben lungi dall’esser rivelata, lungi dall’essere acquisita.
Di fronte allo scacco del tentativo, sempre rinnovantesi, e alla dismisura del gesto, quando lo si avanzi con piena disposizione, forse sarebbe allora opportuno chiedersi umilmente come dimensionarlo di maniera che l’alterità cui ci si volge venga il meno possibile fraintesa, abusata, elusa.

La Rischiaratrice

Proviamo a numerare alcune forme di presa dell’oggetto, concentrandoci intorno a quelle più rappresentative e mediate da quel grande e ineludibile strumento che è il linguaggio, in particolare il linguaggio che lascia traccia di sè, lo scritto. Esso sì testimone indefettibile dei molteplici tentativi di accampare uno sguardo più o meno sovrano sopra il reale..
Quando si legge un testo scientifico, per cominciare dal più ambizioso dei testi che impugnino un principio di “verità”, si ha la sensazione spesso di un forte schiarirsi dell’oggetto riferito nel testo. La successione logica dell’argomentazione, sorretta da prove e controprove, tende a fornire come un acclaramento, un illuminarsi, se non definitivo perlomeno approssimativo, ma convincente, di ciò cui si presta a fornire esplicazione. Il suo modo di procedere è quello chiamato della spiegazione, dell’articolata esplorazione cioè, per distinguo e per categorizzazione, di ciò che esso vaglia, in vista di una definizione. Spiegare è togliere le pieghe e dunque, alla fine di una spiegazione, ciò che si offre ai nostri sensi è un orizzonte da cui increspature, ombre e crinali sono diradati e la forma dell’ente è percepibile in tutta la sua ampiezza ben distesa.
Credo che la lettura della sistematizzazione scientifica, che è la forma finale della comprensione sotto questa veste, soddisfi gli spiriti a caccia di luce, bisognosi di rivelazioni da intendersi come es-posizioni, come predicazioni sensate, dimostrate e apparentemente inoppugnabili, dell’oggetto. Il che, come è noto, sembra attagliarsi meglio alla comprensione della realtà fisica che a quella spirituale: eppure ritengo che in verità si tratti d’un atto che travalica di gran lunga l’uno e l’altro campo e che debba essere altresì concepito come un puro atto dello spirito, come una modalità, anzi uno stilema del conoscere che ritroviamo ampiamente testimoniato, specie nel nostro mondo d’oggidì, sia nella comprensione della realtà concreta che in quella della realtà discreta.
La comprensione che si potrebbe definire analitica e talora categorica è una delle forme tipiche di comprensione, quella più affamata di luce, di chiarezza, di stabilità. E’ anche quella che maggiormente impiega concetti e categorie, che classifica e che stabilisce gerarchie ben ordinate di significati intorno alla manifestazione concreta dei fenomeni, in modo che codesti non possano più fuggire, come una farfalla sotto gli spilli. E’ quella che tende a diffidare di ciò che sfugga ad una diretta presa testimoniale (o verificabilità empirica).
La ratio geometrica che governa questa modalità ne fa una delle forme ad oggi più diffuse di ponderazione di comprensione della realtà da cui, anche quando si cerchi di fuoriuscire, non sempre è facile prescindere, anche perché è quella che intride, spesso implicitamente, il nostro sguardo sulla natura e sulla relazione umana. È, per così dire, la comprensione per eccellenza, canonica, certa in base alla cosiddetta prova dei “fatti”. Sulla natura di questi ultimi, cui spesso e senza posa ci si appella, nonchè sulla sicura sentenza di verità che l’accompagna, sia concesso di esprimere qualche riserva, se non altro per il divario, talora assai netto, delle formulazioni, che non hanno tema di prodursi in sofisticate astrazioni, dalla delicatezza iridescente e cangiante della manifestazione stessa.

La Mimetica

Quando leggiamo un romanzo, un racconto, un testo di prosa di genere non astratto, ma narrativo appunto, ci troviamo di fronte ad un secondo tipo di comprensione. Si tratta di una comprensione che categorizza molto meno della precedente, anzi che tendenzialmente, tranne che in qualche caso (si pensi ad esempio alla celebre classificazione dei tipi umani nel capolavoro di Tolstoj), ci ragguaglia in modo molto più approfondito e dettagliato sulla irriducibilità e poliformità delle figure, dei tipi umani, delle forme singolari della natura. La prosa, in questo senso, è un tentativo talora ineguagliabile, solo comparabile a quello di certa pittura, di fornire una vera e propria comprensione mimetica dell’altro.
Questa mimesis è condotta da alcuni autori a vertici ineguagliabili di esplicitazione (ciò che talora nell’immagine resta come implicito e ancora avvolto nell’oscurità di un’esplorazione tutta da compiere): la parola, che tutto rischiara quando è guidata nei sicuri sentieri della coerenza grammaticale, nomina quasi divinamente ogni aspetto del reale e lo staglia, anzi lo ritaglia sottoponendocelo ora nella sua nettezza non evitabile. Si pensi a certe descrizioni del naturalismo francese, ai dettagli, alla precisione. Tutto è lì, presente, ma più che presente, detto e osteso, se così si può dire, dinanzi a noi, perché non ci sfugga. Lo scrittore in questo ci offre una “vista” estremamente sorvegliata di ciò che è utile alla nostra comprensione: egli dirige la nostra attenzione su ciò che è importante e non ci consente di perderlo di vista, mentre, naturalmente, tutto ciò che egli non nomina finisce per sprofondare totalmente nell’invisibile. In un certo senso egli scinde il visibile dall’invisibile e ci propone, talora con magnifiche formule metaforiche o strepitose analogie, si pensi a Proust, l’articolatissima e difficilmente riducibile multiformità del reale, anche nelle sue sfere più intime, spirituali, oscure. Qui non c’è dunque tanto una separazione della luce dal buio, quanto semmai una scissione del detto dal non detto. Il mondo della narrazione è quello affiorato in parola, una parola il cui senso è palese e la cui forma è percepita pienamente.
Oggi si fa un gran parlare della comprensione narrativa istituendo tra questa libera profferta in parola del campo dell’esperienza e la verità una coniugazione forse persino meno problematica di quella offerta dalla disamina scientifica, ma comunque tutta affidata alla certezza assegnata all’atto ostensorio di un profferire (o di un descrivere) che, quanto meno, censura, seziona, ridistribuisce, talora nella più totale incoscienza dello stesso autore. Si tratta probabilmente della forma più ampia di dominio dell’ente che la comprensione possa ottenere, come risposta coordinata ad una domanda di senso, ma forse anche di quella paradossalmente più soggettiva e dissimulata. La prosa è sempre un discorso dell’io e in esso campeggia, se così si può dire, la comprensione cosciente e dirimente, quella governata da un’istanza presente e distinguente, l’io appunto.

La Dissolta

Quando leggiamo una poesia, per venire all’ultima mediazione tra noi e il nostro altro, avvertiamo, ed è un sentimento inevitabile, un autentico spaesamento. Credo sia questa la prima fondamentale sensazione. Una sensazione che quindi sembra scalzare ogni fede nella certezza di una comprensione. Anche nel leggere un romanzo o nel vedere un film, o nell’accostare per la prima volta uno sconosciuto, di primo acchitto, avvertiamo uno sbilanciamento, ma esso è ben presto rimpiazzato dalle categorizzazioni presenti in noi, o nel tessuto di ciò che ci viene offerto, in forma riconoscibile, dall’esterno. In poesia è differente. La poesia, che pure è fatta di parola, non si lascia dominare in alcun modo (asserzione a sua volta problematica e che certamente potrebbe essere contestata dai molti metodi di “lettura” della poesia, ma che ritengo “fondamentalmente” giusta).
La poesia è una forma di linguaggio dove non domina l’io, ma dove si manifesta, forse per la prima volta, l’altro. Nella poesia affiora, frammentariamente, per lampi e scintillamenti, per ombre e per improvvisi vuoti, ciò che l’io stenta a soggiogare. L’altro insieme come parola ed ente, come rappresentazione e realtà. E’ la stessa realtà, apparentemente, che sembra essersi abbigliata del linguaggio, per comparirci dinanzi in tutta la sua abissale distanza. O, se si preferisce, è il linguaggio che ha dovuto abbandonare ogni pretesa di dominio per perseguire la fuga inaggirabile del reale. La poesia, da questo punto di vista, è non, si badi bene, la rotta o la fuga di fronte al reale del soggetto che sprofonda nei propri deliri, ma il tentativo più determinato e tuttavia consapevole della sua impossibilità costitutiva, di seguire quella rotta, la frattura irredimibile tra il soggetto e il reale.
La poesia è l’ultima frontiera, l’ultima e forse unica autentica testimonianza di questa “Cerca”. Il poeta dunque l’ultimo, dissennato, ammirevole eroe di un’istanza di armonizzazione, l’ultimo Artifex dell’opus alchimicum di ricongiunzione dell’uomo e del suo oltre. Nella poesia il reale manifesta il suo profilo pulviscolare e interminato, le storture, le ombre e le luci nel loro ineludibile intreccio, gli abissi e le improvvise interconnessioni. Tutto questo si riverbera nel fluire instabile del dire poetico, instancabilmente alla ricerca di una misura immoderata, di una dismisura che colmi lo iato tra il suo ri-presentare e la presenza che svanisce. Linguaggio che fiorisce in figure libere, in cesure, in immagini di pura sintesi, in costose ma remuneranti torsioni nell’improbabile.
La poesia, più d’ogni altra forma di raffigurazione e dunque di comprensione, ritrae con fedeltà certamente infedele, programmaticamente infedele, consapevolmente infedele, ma anche dolorosamente, il disertare del reale, la sua alterità. Dinanzi alla poesia abbiamo, soffrendolo come spaesamento, il presentimento di un’adesione tra parola e cosa, della viscosità, della granulosità, della pâte, avrebbe forse detto Gaston Bachelard, che materia e anima compongono nella loro partecipazione indistinguibile.
E dunque è la poesia la forma più plastica e meno simulatrice (pur essendolo all’ennesima potenza) di comprensione dell’altro, di questo altro che ci regna intorno, e dentro. Esserne custodi significa esserne mediatori, interpreti. Quando si vuole comprendere l’altro occorre pensarlo come poesia. Vedere l’altro come la furiosa tempesta di metafore e di ossimori che solo un testo poetico potrebbe condurre ad una forma armonica, seppur non pienamente comprensibile. La poesia, interrotta, cangiante, imprevedibile, non traducibile mai pienamente, è la miglior forma di adeguamento inadeguabile attraverso cui il reale possa essere “preso”.
E’ la parola crudele di Artaud o la musica “arcana” di Varèse che può condurci alla soglie dell’altro. E la sola forma adeguata di comprensione di tale parola o di tale linguaggio sepolto è un puro atto di ascolto immaginale. Perché la poesia è anzitutto un atto immaginale, è la forma cioè attraverso cui l’immagine invisibile ci si impone, un’immagine non secreta dal nostro intelletto, ma quella che sgorga dalla materia, dalla sua rêverie acefala, e che trova forma nella medietà di un linguaggio che non tradisce né la sua metafisica provenienza né la sua (in)attingibile concretezza. Ogni comprensione autentica è poetica, è apertura di uno sguardo di assoluto ascolto all’organismo dotato di multipli spessori che è il tessuto musicale del canto poetico, al tempo stesso parola, ritmo, materia.
In ogni poesia il mondo delle figure, che si sagomano delicatamente sul volto imprendibile del reale, disposto nella forma di un ritmo, di un canto, ci porta più in prossimità della lontananza ma anche delle intime corrispondenze che fanno la carne dell’e-sistere. E’ solo attraverso di essa e pensando ad essa che si può dare comprensione. Non vi è altra comprensione che poetica, poiché essa è la gnosi, la conoscenza che non separa, che non tradisce il profondo legame che unisce ogni cosa, ogni cosa che abita concretamente l’esilio della separatezza, nell’invisibile. E’ essa la cognizione che fa baluginare i riflessi di questo invisibile che ci circonda mantenendoli in uno stato di inadeguazione, di prossimità e scivolamento irriducibile nell’oscurità di cui sono fatti e da cui provengono.
Uguale distanza, e poetica, è per l’altro, per ogni altro, come ogni amante sa, l’amante, l’unica figura autenticamente consapevole dell’esilio, del bisogno di comprendere l’altro e dello scacco che sempre inerisce a questo desiderio, alla sua inafferrabilità. Il poeta è l’amante della terra, dei suoi legami invisibili. E’ il suo amante gnostico.

Così distante così prossimo

Quando guardo il volto dell’altro, quando ne accarezzo il profilo e seguo lentamente il geroglifico delle sue valli e dei suoi crinali, quando percorro le sue rughe, la linea della sua bocca, la sagoma del suo zigomo, o la curva delicata dei suoi lobi, quando mi intrattengo nella voragine dei suoi occhi o scivolo sulla curva delle sue gote, quando mi perdo per un attimo nulla delicatezza del suo collo e tento di indovinarne il segreto, quando investigo la formula della sua espressione, mi accorgo che solo la luce oscura di un verso poetico può riscattarne l’intensione infinita, perché solo un rinvio simbolico mai concluso può restituire l’intensità di ciò che è così prossimo e così sempre perduto.
Forse, come dice Yves Bonnefoy, la poesia è una lotta, una linea di resistenza contro la malinconia, che soggiace al duello insostenibile tra l’assoluto e il limitato, ma proprio per questo, come scommessa mai vinta né persa, è essa l’unico fragile veicolo cui si possa affidare la comprensione, intrisa di stupore, della frattura dolcissima che ci rende solidali, come fatti della stessa materia, eppure del tutto altri, a chi ci sta vicino, sia esso il nostro amante, il nostro luogo o il nostro stesso cuore.

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