da Raimon Panikkar, La dimora della saggezza, Mondadori, 2005 (1991), pp.97-98.
"Possiamo distinguere nel silenzio quattro momenti ben distinti:
Primo: IL SOFFOCAMENTO DELLE PAROLE.
Si tace nonostante si abbia moltro da dire. Si tace per prudenza, per accortezza o per paura. Tale silenzio è un ammutolire. Esercita una violenza, mozza il respiro. Calcola mentre distingue e separa. Nel separare isola il vivente e gli toglie il respiro vitale. Impedisce il flusso della vita.
Secondo: LO SBIGOTTIMENTO DELLE PAROLE.
Si tace per la mancanza di parole adeguate. Si tace per smarrimento, per inadeguatezza o per insipienza. E' un silenzio che produce distanza, che rifugge il contatto. La scia atrofizzare e consuma il rapporto vivo. Nell'isolamento sta in agguato la morte.
Terzo: L'INADEGUATEZZA DELLE PAROLE.
Si tace perché si avverte di essere in presenza di qualcosa di inesprimibile. Si tace per impossibilità di esprimere ciò di cui si è avuta esperienza. Si ha sentore dell'indicibile e se ne è consapevoli. E' il silenzio che rimane senza parola. Lo stupore dinanzi almistero. Il suo pericolo è l'irrigidirsi e il rimanere bloccati. Qui l'uomo, per lo più inconsapevolmente, è posto dinanzi a una decisione: affermare la vita o scegliere la razionalità. La razionalità: il tentativo di tradurre l'indicibile in parole e in concetti. La vita: il rischio di lasciarsi prendere dall'indicibile rimanendo nel silenzio. Ciò porta alla quarta distinzione.
Quarto: L'ASSENZA DI PAROLE.
Il silenzio qui non è uno "stare in silenzio", un azzittirsi in mezzo al frastuono. E non è neppure un tacere perché non si ha niente da dire; piuttosto si tace perché non c'è nulla da dire - o, come afferma un'altra Upanisad, perché "ciò che la prola non dice" E' (brahaman). Qui la parola non esaurisce la realtà. Il silenzio è il silenzio della parola. La parola non è più presente. Resta solo il silenzio. Non è l'anninetamento della parola, ma la sua assenza - dal momento che non si presenta più nulla di "essente"."
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