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IL MONTE BARRO

Contrariamente a quanto indica il suo nome la Grigna è un
dio maschile che protegge la città mentre il Resegone è una divinità materna che abbraccia la piana e la ripara; il Barro invece è un dio minore, un monte che lega i figli ai padri e il lago al cielo.

Marzo 1959, è domenica pomeriggio…lasciamo la casa ai piedi del Barro e attraversiamo il ponte; come capita spesso in marzo soffia il vento e il cielo è azzurro.
Cammino sul ponte e stringo la mano forte di mio padre, ne ricordo ancora la consistenza e il calore. Il vento fa correre le nuvole veloci e alzare gli spruzzi sulle rive.
Stiamo andando al cinema, un western, probabilmente. La sala è vicina. Una sala nuova come il ponte. I gradini per salire in galleria, una lastra di vetro tra i gradini mi incuriosisce e mi chiedo se terrà il nostro peso. Il film dura poco, ma abbastanza perché all’uscita mi sorprenda il cielo che ha mutato colore. E’ buio. Il tempo è passato. Mentre guardavamo il film è scesa la sera e il vento di marzo ha portato nuvole e pioggia.
All’uscita ci investe l’aria fredda che scende da nord e corre sul lago. L’asfalto bagnato riflette le luci dei lampioni e i fari delle rare auto di passaggio.
E’ la prima volta che mi accorgo del tempo o almeno che ci rifletto sopra e mi viene paura. Mi stringo a mio padre che mi infila il berretto che copre le orecchie, si abbottona il cappotto grigio e mi prende per mano.
Tornando, la montagna ci sta davanti. I boschi sono già in ombra da tempo solo sopra la cresta, ad ovest, le nuvole sfilacciate che volano veloci sono ormai rosate: niente sarà più come prima.
Il monte Barro non è una montagna importante e non vi saranno state molte richieste.
Per questo credo che dopo morto gli abbiano concesso di fermarsi qui, sul Barro, nonostante fosse venuto da Milano.

Non si sentivano i rumori della città immersi nella conca verde sulla cresta. Sdraiati sulla schiena nell’erba ci rimboccavamo il cielo come una coperta e ascoltavamo il suono delle nuvole.
Alle due del pomeriggio terminava il suo lavoro in ufficio e poi salivamo per la Valle Scura.
Si inerpicava con il suo passo massiccio verso la piana, come un ciclista gregario doveva inseguire tutti quelli che sul Barro ci erano nati. Spostava le felci e l’erba alta con attenzione, cercando di riconoscere gli odori, le bianche fioriture sul terreno; tornava a casa di rado con qualche porcino, era piuttosto il giallo dei galletti a illuminare l’interno del suo tascapane di panno dove felci messe come riparo e foglie secche si appiccicavano ai gambi bluastri dei porcinelli..
Il tutto veniva poi rovesciato sul giornale aperto sul tavolo e qualche volta gli insetti correvano via sulla fòrmica verde. Tutto era pronto per il rituale della pulitura della preda da tempo immemorabile compito delle donne. Lui, con passione, aveva aderito alla schiera dei cercatori di funghi e insalate sconosciute ai cittadini: il “tam” che si avvolgeva a primavera agli arbusti del sottobosco, gli asparagi selvatici, il germoglio del pungitopo, “i rampogen” “i cascialegur”…con la sua parsimonia raccoglieva tutto e portava a casa.
Lo ricordo seduto su un sasso in una radura mentre si preparava le sigarette. Oppure grosso com’era si sdraiava
sul prato della piana, mi abbracciava e giocavamo per ore alla lotta.

Mio padre votava comunista e a all’inizio degli anni sessanta mi raccontava delle meraviglie lontane della Russia. La piana diventava una tribuna in cui i nomi di Krusciov, e Gagarin risuonavano come un’eco di una lontana speranza di cambiamento. Di rado salivamo oltre i “fae” verso le creste del Barro, amava di più la montagna bassa ricche di erbe e boschi. Le poche volte che ci spingevamo alle creste era un’impresa da ricordare e da non riferire in casa per non allarmare.
I soldati lasciavano la caserma, attraversavano il ponte e salivano in Pian Sciresa, noi li seguivamo di nascosto e, acquattati tra i cespugli, osservavamo ragazzotti ben poco marziali lanciare bombe a mano che scoppiavano una volta su tre, o sparare con il fucile e una volta sola con la mitragliatrice trascinata su, a bestemmie, per il pendio. Noi, nascosti, aspettavamo che se andassero, me ne ricordo ancora uno con le fasce slacciate avviarsi giù per il pendio, e poi scendevamo nella piana a cercare i gloriosi reperti. Altre volte sdraiati al sole era la ferita recente della guerra a rubare il tempo, e Napoli con il Vesuvio acceso per l’ultima volta riempiva l’aria del pomeriggio, e le squadriglie di bombardieri alleati sembravano oscurare il cielo sopra di noi. Mi ricordo ancora il rumore sordo degli aerei nella voce che mio padre imitava.
Sdraiati sui colli sopra la piana guardavamo la città come da un aereo, il ponte nuovo, i quartieri ancora staccati tra loro ed addossati ai campanili come a cercare riparo, officine, fabbriche rifiorivano in città e dalle acciaierie usciva il colore del ferro che dai fiumi fluiva nel lago come una ferita.

Mio nonno era invece un montanaro anche se una volta aveva traversato il mare e marciato, dietro o davanti ai generali sulle rosse sabbie dei deserti. Era nato tra la riva del lago e le creste già in territorio svizzero, aveva combattuto sui monti nella grande guerra. Una volta, mentre portava nella neve il capitano ferito sulle spalle, un cecchino austriaco gli aveva piantato una pallottola dum dum nell’anca. I figli a volte scherzando dicevano che si era issato il capitano per ripararsi e questo bastava a farlo imbestialire. Poi la prigionia a Mauthausen e la fame.
A volte riuscivano a catturare un topo e se lo mangiavano. Tornato dalla prigionia una volta aveva preso in trappola e ucciso un grosso topo. I figli scappavano nauseati dalla cucina, ma la nonna, cuoca famosa, aveva voluto far felice il suo Luigi con un arrosto profumato. Al momento del pranzo il postino goloso era arrivato seguendo il profumo. Piccione! Aveva detto la Pina, scoperchiando la pentola. Se voleva assaggiare. E il postino felice aveva spolpato una, due zampe per poi fermarsi stupito di fronte alle altre due e fuggire giù per le scale, disgustato dalla verità .
Era il più abile cercatore di funghi e quando partiva gli altri ne seguivano le tracce fino a quando lui non si fermava e si accendeva un toscano, seduto su un sasso aspettando che le spie si disperdessero.
Nonostante fosse il re della montagna e ne conoscesse ogni anfratto, non credo sia rimasto qui, non ne sento la presenza, forse l’ho annusato poco e non ne riconosco l’odore o forse a lui è stato concesso di pescare sulla riva del lago, forse la grande tinca che una mattina abbiamo visto emergere dalle alghe di smeraldo e scomparire tra mulinelli e gorghi, mentre mio nonno cercava qualcosa per catturarla.
O forse siede in compagnia degli amici alpini a raccontarsi mille volte le stesse storie

Di là dal ponte, ai piedi del Barro, c’era la mia vecchia casa, qualcuno dice fosse stata una caserma di chissà quali eserciti, altri raccontano fosse un convento.
Ne ricordo i colori scrostati, il cortile con i ciotoli, la topolino parcheggiata, il portico con la fontana e un corridoio con il laboratorio di un vetraio e l’odore forte dello stucco.
Le case circondano il Barro.
Il monte sembra nascere dai tetti e le persone non colgono discontinuità nel passaggio dagli orti ai primi boschi di carpini e castagni mischiando sulla tavola il cibo degli uomini e quello selvatico, donato dagli dei.

Ora chiudete gli occhi e immaginate i padri che escono dalle case e dal tempo e guidano fino alla cresta illuminata un allegro corteo di cani e di bambini.
Immaginateli salire per sentieri ben tracciati o appena accennati, inseguiti dal tempo e dalla notte, e scollinare oltre la cresta in un giorno finalmente senza fine.

1 commento:

  1. Veramente toccante.. grazie per aver aperto il tuo cuore mostrandoci i tuoi ricordi.
    Giovanni

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